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Contro i banditi dell’acqua

A colloquio con Andrea Del Testa, referente toscano per l’associazione A Sud

a cura di Donatella Vassallo

L’acqua, da fonte e simbolo di vita a risorsa esauribile al pari del petrolio. Come è avvenuta questa trasformazione? E perché suscita sempre di più gli interessi delle multinazionali?

L’acqua è forse l’elemento naturale che più di tutti è sinonimo di vita. Non c’è bisogno di ricordare questo, né di dilungarci sulla sua importanza nel ciclo biologico degli esseri viventi. Voglio però iniziare a parlare di acqua rilevando un aspetto che nel dibattito corrente sulla privatizzazione delle risorse idriche è spesso tralasciato. Il diritto all’acqua, proprio per il suo legame inscindibile con la vita degli esseri umani, è stato introdotto nel novero dei diritti dell’uomo come naturale estensione del diritto alla vita. L’Ufficio dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Diritti Umani, nel settembre 2007, ha stabilito che “È ormai tempo di considerare l’accesso all’acqua potabile e ai servizi sanitari nel novero dei diritti umani, definito come il diritto uguale per tutti, senza discriminazioni, all’accesso ad una sufficiente quantità di acqua potabile per uso personale e domestico – per bere, lavarsi, lavare i vestiti, cucinare e pulire se stessi e la casa – allo scopo di migliorare la qualità della vita e la salute. Gli Stati nazionali dovrebbero dare priorità all’uso personale e domestico dell’acqua al di sopra di ogni altro uso e dovrebbero fare i passi necessari per assicurare che questa quantità sufficiente di acqua sia di buona qualità, accessibile economicamente a tutti e che ciascuno la possa raccogliere ad una distanza ragionevole dalla propria casa.” Premesso questo, dovremmo prima di tutto stupirci se oggi in diverse parti del mondo ci troviamo ad opporci alle scelte dei governi che invece di garantire l’accesso ad un diritto umano si preoccupano di privatizzare una risorsa indispensabile alla sopravvivenza. In un mondo dove dominano le logiche del liberismo sfrenato ci si è preoccupati di trarre il massimo profitto da ogni tipo di risorsa. Quindi si è passati a considerare beni come il lavoro o come l’acqua (tanto per fare solo qualche esempio) alla stregua di qualunque altro bene di consumo. Relativamente all’acqua, il suo valore crescente, perché risorsa limitata, le preoccupazioni sulla qualità, la quantità e la possibilità di approvvigionamenti e di accesso, hanno trasformato il bene in una risorsa strategica vitale. Sotto la spinta della crescita demografica, della desertificazione di alcune zone del pianeta, e per effetto dell’inquinamento, le risorse idriche pro capite negli ultimi trent’anni si sono ridotte del 40%. A causa della crescita delle attività umane dovuta ad un modello di sviluppo non sostenibile, la disponibilità di acqua potabile per persona sta diminuendo. All’inizio del terzo millennio si calcolava che oltre un miliardo di persone non avesse accesso all’acqua potabile, e che il 40% della popolazione mondiale non potesse permettersi il lusso dell’acqua dolce per una minima igiene. L’acqua è destinata a rivestire un’importanza sempre più rilevante nei rapporti tra gli Stati, con il rischio di dare origine a violenti conflitti. In alcune regioni del mondo, la scarsità di acqua potrebbe diventare quello che la crisi dei prezzi del petrolio è stata, negli anni settanta: una fonte importante di instabilità economica e politica. Per questo suscita l’interesse delle multinazionali: più l’acqua diventa una risorsa sempre più scarsa, più il suo valore di mercato aumenta, e di conseguenza anche i margini di profitto di chi ci specula.

Qual è la situazione in Italia rispetto alla gestione delle risorse idriche? L’impressione è quella di un far west legislativo: si passa dal caso di Agrigento, che con i suoi 445 euro annui, è la città con le tariffe più alte, a quello di Cerveno, in Val Camonica, i cui abitanti pagano 15 euro l’anno. Da cosa dipendono queste differenze?

In Italia la gestione del servizio idrico integrato è affidata agli ATO (Ambiti Territoriali Ottimali). Il servizio idrico integrato ha la funzione di realizzare il ciclo integrato delle acque: dalla fonte l’acqua deve essere portata ai destinatari mediante una rete di adduzione, i reflui che residuano devono passare in fognatura e attraverso la depurazione essere destinati al mare o al riuso. Secondo il rapporto annuale del Conviri, la commissione di vigilanza sull’uso delle risorse idriche, circa il 95 per cento degli Ato (Ambito territoriale ottimale) è gestito da spa, soggetti di diritto privato. La fotografia che il sistema delle gestioni idriche ci presenta è quella di un’Italia divisa in due dall’acqua. Secondo il Blue Book, del centro di ricerca Proacqua, le differenze di prezzo del servizio variano di molto da regione a regione e pertanto sarebbero attribuibili ad un pessimo federalismo delle tariffe. Ad esempio, si calcola che un litro d’acqua a Terni costa quattro volte più che a Milano. E i prezzi della città umbra non sono nemmeno i più alti d’Italia: la superano, in demerito, Latina e Agrigento. In quest’ultima si pagano le tariffe fra le più alte d’Italia con una media di oltre 400 euro l’anno a famiglia. E prezzo alto non necessariamente vuol dire servizio efficiente. Ogni anno, secondo un documento della Confartigianato, il 30,1% dell’acqua immessa in rete non arriva ai rubinetti: per fare un paragone europeo, in Germania le perdite non arrivano al 7%. Tutto questo in un quadro dove gli investimenti sono sia pubblici sia privati. Cosa succederà alle tariffe del servizio idrico con la privatizzazione della gestione? È difficile fare previsioni. Bisogna dire, però, che gli indizi attualmente a disposizione non fanno sperare nulla di buono. Nella maggior parte dei territori a gestione privata si stanno verificando dei cospicui aumenti delle tariffe. Questo per un banale meccanismo di mercato: se la gestione è privata, ai costi di gestione si devono aggiungere anche i profitti, che il cittadino è tenuto a pagare alla società che gestisce il servizio, senza avere la certezza di poter contare su una maggiore efficienza della gestione. Si chiama “remunerazione del capitale investito”. Il cittadino paga già in bolletta i profitti dei gestori del servizio. Si tratta del sette per cento.Arezzo, città in cui la società che gestisce l’erogazione dell’acqua è in mano a privati, ha una bolletta tra le più care d’Italia. Una bolletta quattro volte più costosa rispetto a quella delle città più economiche.

Il decreto Ronchi non fa che portare a compimento un processo di privatizzazione nella gestione dei servizi idrici in Italia iniziato già a metà degli anni ’90. Quali novità introduce? Quali sono le principali conseguenze della gestione in mano privata?

Il decreto Ronchi mette l’acqua sul mercato. Prevede che il servizio sia affidato tramite gara a società interamente private o misto pubblico – private (ma in quel caso il privato dovrà per forza detenere una quota non inferiore al 40 per cento). In deroga rimane la possibilità di affidare il servizio a una società a totale capitale pubblico. Ma solo in deroga, la forma di gestione ordinaria è la gara e i soggetti prescelti sono quelli di diritto privato. I fautori del decreto sostengono che non è privatizzata la proprietà dell’acqua in sé, quanto la gestione del servizio. E’ vero, ma è un’argomentazione pretestuosa fino al ridicolo tanto da dover pensare che ci stiano prendendo tutti per stupidi ed in più non si capisce dove stia il vantaggio. Se io sono proprietario di un orto, ma lo coltiva il mio vicino di casa, che si tiene tutto il raccolto per sé, o al massimo è disposto a vendermi gli ortaggi ad un prezzo al di sopra delle mie possibilità, indovinate: chi dei due è condannato a morire di fame? L’Oggetto della privatizzazione è la gestione delle risorse idriche, degli impianti per la distribuzione dell’acqua ai cittadini, gli impianti di depurazione dei reflui inquinanti, la manutenzione delle strutture, gli acquedotti e le reti fognarie. Il governo, con il Decreto Ronchi, affida la gestione dell’acqua e degli impianti idrici ai privati, trasferendone la competenza, a partire dal 2011. Con questo decreto, si assisterà alla progressiva privatizzazione dei servizi idrici. Le principali conseguenze della privatizzazione, come ho già detto, riguarderanno le tariffe del servizio. Fino ad oggi, laddove si è affidata la gestione ai privati, si sono registrati aumenti tariffari pari al 61 per cento. Le tariffe nel decennio 1997-2006 sono aumentate del 71,4 per cento a fronte di un inflazione nello stesso periodo del 25 per cento. E contemporaneamente gli investimenti sulla rete idrica sono diminuiti di due terzi. Nel decennio antecedente all’ingresso dei privati, 1990-2000, gli investimenti sono stati pari a due miliardi di euro anno, nel decennio successivo, 2000-2010, sono scesi invece a 700 milioni di euro annui.

Eppure i sostenitori del decreto considerano il coinvolgimento del privato un adeguamento alla legislazione europea in materia di concorrenza, nonché una garanzia di modernizzazione, efficienza e trasparenza rispetto alle precedenti gestioni… Come stanno realmente le cose? Certo è che la rete idrica nazionale è un colabrodo. L’introduzione di un controllore super partes potrebbe rafforzare il sistema delle regole e tutelare i cittadini?

In passato era stato detto che lo Stato non riusciva più a far fronte agli investimenti necessari all’ammodernamento delle reti, a rendere efficiente il servizio e a migliore la qualità dell’acqua, problemi che l’ingresso dei privati avrebbe risolto. Ma i dati del Conviri dicono il contrario: c’è stata una flessione, netta. I privati non hanno alcun interesse a fare investimento cospicui per l’ammodernamento delle reti, del resto non  pagano nulla per l’acqua che si disperde. Con i servizi pubblici locali il business è garantito, non c’è rischio d’impresa. Le società che gestiscono i servizi idrici hanno la più alta rendita in borsa, superiore addirittura a quella delle compagnie petrolifere che si aggira attorno al 29 per cento annuo. Quella dei gestori dell’acqua è invece attorno al 35 per cento. Nel settore dell’acqua la domanda è quantomeno fissa e il profitto garantito dalla legge. Per quanto riguarda i consumi si deve sottolineare che la media dei piani di ambito in Italia, prevede per i prossimi anni un aumento dei consumi pari a circa il 18 per cento. Un crescita in controtendenza rispetto a quelle che dovrebbero essere politiche di risparmio idrico o di uso sostenibile della risorsa, vista la conclamata crisi idrica generale. È evidente che un gestore privato non ha avrà interesse a fare politiche di questo tipo. Il suo interesse sarà di vendere sempre più prodotto, quindi sempre più acqua. Bisogna aggiungere poi che il fatto che un sistema privato di gestione dell’acqua rappresenti un adeguamento alla legislazione europea in materia di concorrenza non è un aspetto che può interessare sostenitori dell’acqua come bene comune. Del resto, per preoccuparci dell’adeguamento alle norme che regolano la concorrenza bisognerebbe partire dal presupposto che l’acqua sia un bene come tutti gli altri e pertanto soggetto alle leggi della domanda e dell’offerta. Se invece si parte dal presupposto che l’acqua è un bene comune, già presente in natura senza bisogno dell’intervento umano, indispensabile per la sopravvivenza della vita organica, ed il diritto all’accesso alle risorse idriche un diritto umano, non si può prescindere dal considerare una violazione del diritto alla vita qualunque tentativo di ricondurre a logiche di mercato non solo la proprietà, ma anche la gestione delle risorse idriche, che per natura sono escludenti. Se l’acqua è un diritto, io cittadino voglio avere la possibilità di poter avere un peso nel controllo della gestione delle risorse idriche. E l’unico strumento che mi consente questo è la possibilità di poter scegliere gli amministratori che gestiranno il servizio, attraverso libere elezioni. Ragion per chi ho necessità che l’acqua sia pubblica. Difficilmente posso influire sul controllo di un bene comune se la sua gestione è affidata ad un privato, a meno che non possa permettermi di comprarmi un cospicuo quantitativo di azioni di quella società. Possibilità che ovviamente è concessa a pochi. Detto questo, è fuori di ogni dubbio che lo stato attuale della rete idrica sia un colabrodo, e che la cattiva gestione pubblica, in alcuni casi influenzata dal peso che hanno le mafie in alcune zone del paese (e non mi riferisco solo al sud), siano un problema urgente da affrontare. Ma la soluzione non può e non deve essere il demandare al privato, non c’è nessun dato oggettivo che mi garantisca l’efficienza di una gestione privata né che un organismo diverso da quello pubblico sia lontano dalle logiche degli interessi particolari anche di tipo malavitoso. Chi sostiene queste tesi si basa soltanto sulla fede cieca che oggi nell’occidente si ha per le leggi del mercato, che il privato sia sinonimo di efficienza e di modernizzazione è ormai un ritornello che è entrato nella testa di molti, ma nessuno ci può garantire che il mercato sia più efficiente del pubblico quando si tratta di gestire beni comuni. Bisogna rivedere il paradigma di civiltà improntato sul liberismo, perché è la causa principale che ci sta portando alla rovina ed al saccheggio delle risorse naturali.  Sono, infatti, sempre più noti i legami che intercorrono tra certa politica e le società che hanno interesse ad appropriarsi dell’acqua.  Bisogna poi aggiungere che, in ogni caso, qualunque meccanismo di controllo sulla gestione delle risorse idriche che può essere adottato, non deve essere in nessun modo influenzato da logiche di mercato o dal profitto così come il diritto all’accesso all’acqua deve stare fuori delle logiche liberiste.

Quali sono le proposte da parte dei comitati e delle associazioni che si battono a difesa dell’acqua-bene comune e quali risultati sono stati raggiunti fino ad ora?

La campagna referendaria “L’acqua non si vende” è oggi il principale strumento con il quale si vuole impedire che il diritto all’acqua sia compromesso da chi ha interesse a speculare sulle risorse idriche e quindi sulla vita. Dopo nove giorni di raccolta firme, iniziata il 24 aprile scorso, il Comitato Promotore per i tre Referendum per l’acqua pubblica ha comunicato di aver superato le 250mila raccolte per ciascuno dei tre quesiti proposti. La velocità di raccolta firme è straordinaria e da tutti i territori, anche dai più periferici in poco tempo sono iniziati ad arrivare dati fantastici. Il fine settimana del primo maggio ha replicato il successo del precedente. File nei banchetti in tutta Italia, alle celebrazioni della Festa dei Lavoratori, nelle piazze e per la strade. Impossibile dire, visti i tempi editoriali, a quanto ammonteranno le firme raccolte quando uscirà quest’articolo. Mi sia permessa una valutazione politica piuttosto forte: é fondamentale impedire che tutti i tentativi di rendere privata l’acqua  ci rubino, e sottolineo rubino, il diritto all’acqua come bene comune, dando la possibilità di saccheggiare ciò che non appartiene al capitale, poiché patrimonio dell’umanità, con pratiche da banditismo. Come chiamereste voi qualcuno che vi entra in casa e s’impossessa dei vostri beni? Io li chiamo banditi, perché saccheggiano un bene che non è loro, poiché comune a tutti. E’ poi straordinario costatare che per la prima volta dopo tanto tempo, attorno al tema dell’acqua si stanno riunendo molti soggetti, di diversa provenienza, per dare vita ad un movimento che metta nuovamente al centro dell’azione politica i diritti dell’uomo e della terra, con tutte le sue risorse che devono costituire il nostro patrimonio di beni comuni. La cosa più confortante è poter vedere risorta l’altra Italia, quella che non si è lasciata asservire alle logiche del pensiero unico e del berlusconismo che ormai è diventata la sola ideologia ammessa e tollerata dai più. Sta rinascendo una rete di soggetti con i quali sarà interessante coltivare un progetto per realizzare l’impresa, possibile e necessaria, di un altro mondo, basato sul rispetto dei diritti dell’uomo e della terra. Della nostra terra che gli indigeni del sud america chiamano la Pachamama, (la madre terra) e delle risorse che ci regala, che invece in Italia stiamo vendendo a chi è disposto a specularci. Di questo A Sud si sta occupando da tempo. E’ da poco terminata in Bolivia la Conferenza Mondiale dei Popoli sul Cambiamento Climatico e i Diritti della Madre Terra dove ha partecipato una nostra delegazione. A Cochabamba, la città dove si è consumata e vinta la prima guerra di liberazione dell’acqua, (in quel paese si tentò di privatizzare pure l’acqua piovana) è nata l’Internazionale della Madre Terra. Quest’evento segna l’inizio di un nuovo campo di azione. Un campo che si è andato costituendo nel corso di questi ultimi venti anni a partire dalle lotte dei movimenti sociali, contadini, indigeni di tutto il mondo. Un’ecologia della liberazione che promuove una democrazia deliberativa, attraverso pratiche e forme di partecipazione più ampie. Un soggetto si pone come obiettivo quello di salvare il pianeta e per farlo propone la costruzione di un nuovo paradigma di civilizzazione, fondato sull’armonia con la vita e la ricostruzione dei nessi biologici con tutti i viventi. Se il capitalismo mette al centro il profitto ed il socialismo l’uomo, questo nuovo soggetto planetario pone al centro la vita. Non vede l’uomo separato da essa ma se ne riconosce parte e come tale assume il diritto e la responsabilità di difenderla nel suo complesso, accettando e valorizzando la profonda ed indissolubile relazione di interdipendenza e connessione tra tutti i viventi. Un campo in cui s’identificano non solo i movimenti indigeni, con il “buen vivir”, ma che include la teologia della liberazione, centinaia di milioni di contadini di Via Campesina, i movimenti africani come quelli di liberazione del delta del Niger, quelli indiani contro le dighe, il transgenico e la biopirateria, le reti internazionali di associazioni per il riconoscimento del debito ecologico, le comunità sparse per il pianeta, Italia inclusa, impegnate contro le privatizzazioni dei beni comuni, centri di ricerca e di studio, intellettuali e scienziati.  Da Cochabamba viene lanciato un messaggio chiaro: il modello capitalista è il principale responsabile dei cambiamenti climatici e delle crisi di questo pianeta, tra le quali quella alimentare e migratoria che già adesso distruggono i diritti di miliardi di esseri umani e della natura. Questa nuova Internazionale dei movimenti, che per ragioni evidenti ed ormai indiscutibili si dichiara anticapitalista, si pone la necessità di costruire una Democrazia della Terra, lasciando da parte qualsiasi scorciatoia legata al “new green deal” di Obama, che tanto piace a molti europei. Ma se non si riducono i consumi e non si cambia la maniera di produrre e distribuire da questa situazione non se ne esce e le crisi trascineranno sul fondo tutti. Abbiamo invece bisogno di proposte concrete ed immediate. Tra queste le più efficaci emerse dalla conferenza sono il riconoscimento del debito ecologico del nord del mondo nei confronti dei popoli del sud e l’istituzione del Tribunale Internazionale di Giustizia Climatica. Misure concrete in grado di mettere al centro il concetto di giustizia climatica e stabilire le responsabilità condivise ma diverse che tutti dobbiamo assumere. Proposte che i presidenti di Bolivia, Cuba, Ecuador, Nicaragua e Venezuela, in questa alleanza necessaria con i movimenti, si sono impegnati a portare al segretario generale delle Nazioni Unite ed a discutere con altri governi. Discorso che però non piace e confligge con le proposte di chi detiene la “governance”.  In poche parole, la battaglia sull’acqua è solo il primo tassello di un progetto più grande, è il primo obiettivo da raggiungere per iniziare un cambiamento di paradigma economico e di civiltà, che ci condurrà su un sentiero dove è importante camminare in molti, perché dalla realizzazione di questi obiettivi dipende il futuro della terra e dell’umanità.

Atto criminale

La marina militare israeliana ha assaltato nella notte una nave umanitaria del convoglio Freedom Flotilla, organizzato dalle ONG internazionali e diretto verso Gaza per portare aiuti alla popolazione.
Almeno 19 i morti e oltre 20 i feriti.



Comunicato stampa

Chiediamo verità e non menzogna.

L’Italia condanni questo atto criminale!

Flavio Lotti: L’Italia condanni a chiare lettere questo atto criminale. Convochi l’ambasciatore d’Israele. E poi s’impegni davvero per chiudere definitivamente il conflitto israelo-palestinese.

Come si definisce l’uccisione di 15 persone inermi e disarmate? Cosa pensiamo se a compiere questa strage di innocenti è un commando inviato dal governo di uno stato democratico? Come si definisce l’aggressione armata in acque internazionali ad una serie di navi civili cariche di aiuti umanitari?

Lo chiedo a me stesso e a tutti i responsabili della politica e dell’informazione del nostro paese perché ad un atto criminale non se ne aggiunga un altro. Come deve reagire un paese democratico di fronte ad un simile massacro?

Quello che non può e non deve assolutamente accadere è che le menzogne, la propaganda e le strumentalizzazioni abbiano il sopravvento sulla verità, sulla legalità e sul bisogno di giustizia.

Di fronte a tanto orrore e a tanta illegalità il mondo civile deve reagire con fermezza e lucidità. Chiediamo al governo italiano di condannare a chiare lettere quanto è accaduto e continua ad accadere anche in queste ore. L’Italia deve convocare immediatamente l’ambasciatore d’Israele a Roma per esprimere tutta l’indignazione del popolo italiano. Chiediamo l’intervento immediato dell’Italia, dell’Europa e dell’Onu. Chiediamo che la nostra diplomazia si mobiliti in tutte le sedi europee e internazionali per ottenere l’immediato rilascio dei pacifisti e il dissequestro di tutti i beni trasportati dalla flotta della libertà che devono poter raggiungere il porto di Gaza. Chiediamo al Segretario Generale dell’Onu e all’Alto Commissario dell’Onu per i diritti umani, l’apertura immediata di un’inchiesta internazionale su quanto sta accadendo.

E, ancora, insieme ad Articolo 21, chiediamo al mondo dell’informazione e in particolare alla Rai di fare fino in fondo il suo mestiere di servizio pubblico, organizzando subito un dibattito in prima serata, consentendo agli italiani di sapere cosa è accaduto, perché è accaduto, chi sono i responsabili, cosa bisogna fare per costruire la pace in Medio Oriente e quali sono le nostre responsabilità.

Flavio Lotti, coordinatore nazionale della Tavola della pace

Perugia, 31 maggio 2010

Tavola della Pace


Di Marica Di Pierri su Liberazione 25 Aprile 2010] da Cochabamba (Bolivia)
E’ chiaro a tutte le migliaia di delegati che hanno affollato nei giorni scorsi la città di Cochabamba, “corazon” della Bolivia e dell’America Latina, che siamo in un momento cruciale per il pianeta e che la scelta in fondo è semplice, seppure dura a sentirsi: Madre Terra o morte. E’ questo il mantra ripetuto durante i quattro frenetici giorni di lavoro della prima Conferenza Mondiale dei Popoli sul Cambiamento Climatico e i Diritti della Madre Terra, che ha visto riunirsi dal 19 al 22 aprile nella città boliviana – già teatro 10 anni fa della Guerra dell’Acqua – 30.000 delegati tra attivisti di organizzazioni sociali, sindacati, scienziati, intellettuali, governi.
Dalla Conferenza è uscito un documento, l'”Accordo dei Popoli”, che stabilisce alcuni punti fondamentali che costituiranno la piattaforma di rivendicazione sociale e di negoziazione istituzionale da qui in avanti, per arrivare alla 16° Conferenza delle Parti sul clima di Cancun a fine anno. “La Madre Terra è ferita e il futuro dell’umanità è in pericolo – dice il preambolo. Se la temperatura aumenterà di più di 2°, tra il 20 e il 30% delle specie saranno a rischio di estinzione, saranno irreversibilmente danneggiati gran parte dei boschi, la desertificazione aumenterà e con essa il numero degli affamati, che già sono oltre 1.200.000 in tutto il mondo.”
La dichiarazione attribuisce la responsabilità di questa crisi ambientale e climatica al modello di sviluppo capitalista, basato sulla crescita illimitata e sulla separazione dell’essere umano dalla natura in una logica di dominazione su di essa. Auspica il passaggio ad un nuovo modello tale da “contemplare principi di complementarietà, solidarietà ed equità, di benessere collettivo, di soddisfazione delle necessità di tutti in armonia con la Madre Terra.” Un concetto questo ripetuto da molti degli ospiti internazionali arrivati a Cochabamba.
Tra essi Frei Betto che parlando di come costruire un nuovo paradigma, ha parlato della necessità di «cercare la Felicità Interna Lorda e non il Prodotto Interno Lordo». Naomi Klein ha sottolineto invece la doppia valenza dell’appuntamento di Cochabamba: «siamo qui per due ragioni – ha detto – salvare il pianeta e salvare la democrazia. Copenaghen è solo l’ultimo esempio di una democrazia che non funziona perchè ci sono troppe parti che vogliono partecipare, mentre la pratica è concentrare il potere nelle mani di pochi paesi. Qui in Bolivia invece c’è stato un processo partecipativo per cercare di offrire assieme risposte concrete a questa crisi».
Le risoluzioni uscite da Cochabamba proporranno l’approvazione della Dichiarazione Universale dei Diritti della Madre Terra davanti all’Assemblea delle Nazioni Unite, l’istituzione di un Tribunale Internazionale per la Giustizia Climatica ed Ambientale, la proposizione di un Referendum mondiale sul cambiamento climatico, la riduzione del limite entro cui contenere il surriscaldamento del pianeta a 1° invece che a 2° come emerso a Copenaghen. Proposte queste che verranno fatte proprie e difese a Cancun nel tavolo delle negoziazioni ufficiali dai governi dell’Alba e contemporaneamente sostenute da una massiccia mobilitazione dei movimenti sociali che si ritroveranno in Messico in quei giorni. L’appello alla mobilitazione per Cancun è stata raccolta da tutte le realtà presenti a Cochabamba perchè è chiaro a tutti che la Cop16 sarà un momento cruciale nella lotta al cambiamento climatico.
Dal palco della cerimonia finale – alla quale hanno partecipato i presidenti Morales e Chavez, i vicepresidenti di Cuba e Nicaragua, il ministro degli esteri ecuadoriano e altri rappresentanti istituzionali di diversi governi – è stato lanciato un monito all’Organizzazione delle Nazioni Unite, affinchè recepisca e supporti le proposte emerse a Cochabamba. In alternativa, la proposta è quella di creare una “organizzazione dei popoli uniti” che si faccia carico degli interessi collettivi dei popoli e non di quelli, spesso particolari degli stati. «Se i governi del mondo non assumono la sfida di salvare il pianeta, saranno i popoli del mondo a doverlo fare» – ha detto Morales durante la chiusura del vertice, ripetendo quanto emerso dai diversi contributi raccolti in questi giorni di dibattito, tutti concordi sull’urgenza di cambiare paradigma di civiltà.
Leonardo Boff, voce di spicco di questo vertice, ha previsto nei suoi interventi che questo momento arriverà presto. «L’umanità ha una tendenza suicida. – ha detto. Non accetta di cambiare la sua logica, basata sulla massimizzazione dei profitti in barba a tutto il resto, vita inclusa. Finchè questa logica persiste, l’umanità peggiorerà le condizioni di vita sulla Terra. Ma arriverà il momento in cui, capiremo che per sopravvivere dobbiamo cambiare. Cambiare o morire».


di Marica Di Pierri


22 Aprile Cochabamba, Bolivia

ACCORDO DEI POPOLI


Oggi, la nostra Madre Terra è ferita ed il futuro dell’umanità è in pericolo.
Se il riscaldamento globale incrementasse di 2° C, eventualità a cui ci condurrebbe la cosiddetta “Intesa di Copenaghen”, esiste il 50% di probabilità che i danni provocati alla nostra Madre Terra siano totalmente irreversibili. Un numero compreso tra il 20 e il 30% delle specie sarebbe a rischio d’estinzione. Grandi estensioni di foreste sarebbero danneggiate, le siccità e le inondazioni colpirebbero differenti regioni del pianeta, si amplierebbero i deserti e si aggraverebbe lo scioglimento dei poli e dei ghiacciai nelle Ande e in Himalaya. Molti stati insulari sparirebbero e l’Africa soffrirebbe di un incremento della temperatura di più di 3º C. Si ridurrebbe, allo stesso modo, la produzione di cibo nel mondo con effetti catastrofici per la sopravvivenza degli abitanti di vaste regioni del pianeta e aumenterebbe in maniera drammatica il numero degli affamati nel mondo, che già ha superato la cifra di 1020 milioni di persone.

Le imprese e i governi dei paesi chiamati “più sviluppati”, in complicità con un segmento della comunità scientifica, si siedono a discutere del cambiamento climatico riducendolo a un problema di aumento della temperatura senza discutere la causa: il sistema capitalista.

Siamo di fronte alla crisi terminale del modello di civiltà patriarcale basato sulla sottomissione e la distruzione degli esseri umani e della natura, che ha subito un accelerazione dalla rivoluzione industriale.

Il sistema capitalista ci ha imposto una logica di concorrenza, progresso e crescita illimitata. Questo regime di produzione e consumo è alla continua ricerca di profitti, separando l’uomo dalla natura, stabilendo una logica di dominazione su questa, convertendo tutto in merce: l’acqua, la terra, il genoma umano, le culture ancestrali, la biodiversità, la giustizia, l’etica, i diritti dei popoli, la morte e la vita stessa.

Sotto il capitalismo, la Madre Terra è diventata fonte solo di materie prime e gli esseri umani mezzi di produzione e consumatori, persone che valgono per quello di cui sono in possesso e non per quello che sono.

Il capitalismo richiede una potente industria militare per il suo processo di accumulazione e controllo dei territori e delle risorse naturali, reprimendo la resistenza dei popoli. Si tratta di un sistema imperialista di colonizzazione del pianeta.

L’umanità è di fronte a un bivio importante: continuare per la strada del capitalismo, della depredazione e della morte oppure intraprendere il cammino dell’armonia con la natura e del rispetto della vita.

Vogliamo forgiare un nuovo sistema che riporti armonia con la natura e tra gli esseri umani. Ci può essere equilibrio con la natura solo se c’è equità tra gli esseri umani.

Proponiamo ai popoli del mondo il recupero, la rivalorizzazione e il rafforzamento delle conoscenze, le saggezze e le pratiche ancestrali dei Popoli Indigeni, affermati nel vissuto e nella proposta del “Buen Vivir”, riconoscendo la Madre Terra come essere vivo, con la quale intratteniamo una relazione indivisibile, interdipendente, complementare e spirituale.

Per affrontare il cambiamento climatico dobbiamo riconoscere la Madre Terra come fonte di vita e plasmare un nuovo sistema basato nei principi di:
•    armonia ed equilibrio tra tutti e con tutto
•    complementarietà, solidarietà ed equità
•    benessere collettivo e soddisfacimento delle necessità fondamentali di tutti in armonia con la Madre Terra
•    rispetto dei Diritti della Madre Terra e dei Diritti Umani
•    riconoscimento dell’essere umano per quello che è e non per quello che possiede
•    eliminazione di tutte le forme di colonialismo, imperialismo ed interventismo
•    pace tra i popoli e con la Madre Terra.

Il modello che proponiamo non è di sviluppo distruttivo, né illimitato. I paesi hanno bisogno di produrre beni e servizi per soddisfare le necessità fondamentali della loro popolazione, ma in nessun modo possono continuare per questo cammino di sviluppo che porta i paesi più ricchi ad imprimere un’impronta ecologica 5 volte più grande di quella che il pianeta è in grado di sopportare. Attualmente, si è già superata del 30% la capacità del pianeta di rigenerarsi. A questo ritmo di iper-sfruttamento della nostra Madre Terra, si avrà bisogno di 2 pianeti nel 2030.

In un sistema interdipendente del quale noi esseri umani siamo una delle componenti non è possibile riconoscere diritti soltanto alla parte umana senza provocare uno squilibrio in tutto il sistema. Per garantire i diritti umani e ristabilire l’armonia con la natura è necessario riconoscere ed applicare effettivamente i diritti della Madre Terra.

Per questo proponiamo il progetto allegato di Dichiarazione Universale dei Diritti della Madre Terra nel quale si proclamano:
•    Diritto alla vita e diritto ad esistere;
•    Diritto a essere rispettata;
•    Diritto alla continuazione dei propri cicli e processi vitali, liberi da manipolazioni da parte dell’uomo;
•    Diritto a conservare la propria identità ed integrità come esseri differenziati, auto-regolati ed interrelati;
•    Diritto all’acqua come fonte di vita;
•    Diritto all’aria pulita;
•    Diritto alla salute integrale;
•    Diritto a essere libera dall’inquinamento, dai rifiuti tossici e radioattivi;
•    Diritto a non essere alterata geneticamente e modificata nella sua struttura minacciando la sua integrità o funzionamento vitale e salubre
•    Diritto a una riparazione piena e pronta delle violazioni, causate dalle attività umane, ai diritti riconosciuti in questa Dichiarazione.

La visione condivisa è la stabilizzazione delle concentrazioni di gas effetto serra per rendere effettivo l’articolo 2 della Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sul Cambiamento Climatico che sancisce “la stabilizzazione delle concentrazioni di gas effetto serra nell’atmosfera a un livello che impedisca le interferenze antropogeniche pericolose per il sistema climatico”. Noi esigiamo, sulla base del principio della responsabilità storica  comune ma differenziata, che i paesi sviluppati s’impegnino prefissando delle mete quantificate per ridurre le emissioni e si possa, in questo modo, tornare a una concentrazione di gas effetto serra nell’atmosfera di 300 ppm e, così, limitare l’aumento della temperatura media globale a un livello massimo di 1°C.

Ponendo enfasi sulla necessità di un’azione urgente per raggiungere questo obiettivo e con il sostegno dei popoli, dei movimenti e delle nazioni, i paesi sviluppati dovranno impegnarsi ponendo mete ambiziose di riduzione delle emissioni che permettano di raggiungere gli obiettivi a breve termine, mantenendo la nostra visione a favore dell’equilibrio del sistema climatico della Terra, d’accordo con l’obiettivo ultimo della Convenzione.

La “visione condivisa” per la “Azione Cooperativa a Lungo Termine” non deve ridursi a negoziazioni sul cambiamento climatico per definire i limiti del riscaldamento globale e delle concentrazioni di gas effetto serra nell’atmosfera, ma deve comprendere in modo integrale ed equilibrato un insieme di misure finanziarie, tecnologiche, adattative, di sviluppo di capacità, di modelli di produzione, di modelli di consumo e altre misure essenziali come il riconoscimento dei diritti della Madre Terra per ristabilire l’armonia con la natura.

I paesi sviluppati, principali colpevoli del cambiamento climatico, assumendo la propria responsabilità storica e attuale, devono riconoscere e onorare il proprio debito climatico in tutte le sue dimensioni, come base per una soluzione giusta, effettiva e scientifica al cambiamento climatico. In questo ambito esigiamo che i paesi sviluppati:

•    Ridiano ai paesi in via di sviluppo lo spazio atmosferico che è occupato dalle loro emissioni di gas effetto serra. Questo implica la decolonizzazione dell’atmosfera attraverso la riduzione e l’assorbimento delle loro emissioni.

•    Assumano i costi e il bisogno di trasferimento tecnologico dei paesi in via di sviluppo per la perdita delle opportunità di sviluppo derivanti dal vivere in uno spazio atmosferico ristretto.

•    Si rendano responsabili delle centinaia di milioni di persone che dovranno migrare a causa del cambiamento climatico da loro provocato ed eliminino le proprie politiche restrittive in materia di migrazione, offrendo ai migranti una vita dignitosa e con tutti i diritti nei loro paesi.

•    Assumano il debito di adattamento legato agli impatti del cambiamento climatico nei paesi in via di sviluppo, provvedendo i mezzi per prevenire, minimizzare e facendo attenzione ai danni causati dalle loro eccessive emissioni.

•    Onorino questi debiti come parte di un debito maggiore con la Madre Terra, adottando e applicando la Dichiarazione Universale dei Diritti della Madre Terra nelle Nazioni Unite.

L’approccio deve essere non soltanto di compensazione economica, ma principalmente di giustizia restauratrice – ossia di restituzione dell’integrità alle persone e ai membri che formano una comunità di vita nella Terra.

Deploriamo l’intento di un gruppo di paesi di annullare il Protocollo di Kyoto, l’unico strumento legalmente vincolante specifico per la riduzione delle emissioni di gas effetto serra dei paesi sviluppati.
Avvisiamo il mondo che nonostante le emissioni dei paesi sviluppati fossero vincolate legalmente, queste sono cresciute del 11,2% tra il 1990 e il 2007.

Gli Stati Uniti, a causa del loro consumo illimitato, hanno aumentato le proprie emissioni di gas effetto serra del 16.8% tra il 1990 e il 2007, emettendo in media tra le 20 e le 23 tonnellate annuali di CO2 per abitante, più di 9 volte le emissioni corrispondenti di un abitante medio del Terzo Mondo o più di 20 volte le emissioni di un abitante dell’Africa Subsahariana.

Rifiutiamo in maniera assoluta l’illegittima “Intesa di Copenaghen” che permette a questi paesi sviluppati di contrattare riduzioni insufficienti di gas effetto serra, ricorrendo a impegni volontari ed individuali, che violano l’integrità ambientale della Madre Terra conducendoci a un aumento della temperatura di quasi 4ºC.

La prossima Conferenza sul Cambiamento Climatico, che avrà luogo alla fine dell’anno in Messico, deve provvedere all’approvazione della rettifica del Protocollo di Kyoto per il secondo periodo di impegno dal 2013 al 2017 durante il quale i paesi sviluppati dovranno conseguire riduzioni domestiche significative di almeno il 50% rispetto all’anno base del 1990 senza fare ricorso ai mercati del carbonio o ad altri sistemi di sviamento che mascherano l’inadempimento delle riduzioni reali di emissioni di gas effetto serra.

Vogliamo ristabilire, in primo luogo, una meta per l’insieme di paesi sviluppati per, successivamente, realizzare l’assegnazione individuale ad ogni paese sviluppato della propria meta nell’ambito di una comparazione degli sforzi tra ognuno di essi, mantenendo valido in questo modo il sistema del Protocollo di Kyoto per la riduzione delle emissioni.

Gli Stati Uniti d’America, nel loro ruolo di unico paese della Terra dell’Allegato 1 a non avere ratificato il Protocollo di Kyoto, hanno una responsabilità significativa davanti a tutti i popoli del mondo di ratificare il suddetto Protocollo e impegnarsi a rispettare ed eseguire gli obiettivi di riduzione delle emissioni in una scala comprensiva di tutta la sua economia.

Noi popoli abbiamo gli stessi diritti di tutela davanti agli effetti del cambiamento climatico e rifiutiamo la nozione di adattamento al cambiamento climatico intesa come rassegnazione agli effetti provocati dalle emissioni storiche dei paesi sviluppati, che devono adattare i loro stili di vita e consumo a fronte di questa emergenza planetaria. Noi ci vediamo forzati ad affrontare gli impatti del cambiamento climatico, considerando l’adattamento come un processo e non come una imposizione e, in più, come strumento per contrastare tali effetti, dimostrando che è possibile vivere in armonia attraverso un modello di vita diverso.

È necessario costituire un Fondo di Adattamento, un fondo esclusivo per affrontare il cambiamento climatico come parte di un meccanismo finanziario amministrato e gestito di maniera sovrana, trasparente ed imparziale dai nostri stati. In questo Fondo si devono valutare: gli impatti, i costi  e i bisogni che derivano da questi impatti nei paesi in via di sviluppo, registrando e monitorando il sostegno da parte dei paesi sviluppati. L’amministrazione di questo fondo deve includere anche un meccanismo per il risarcimento dei danni per gli impatti avvenuti o futuri, per la perdita di opportunità ed il ristabilimento dagli eventi climatici estremi e graduali, e costi addizionali che potranno presentarsi se il nostro pianeta supera le soglie ecologiche o per quegli impatti che stanno frenando il diritto al “Vivir Bien”.

La “Intesa di Copenaghen” imposta ai paesi in via di sviluppo da alcuni Stati, oltre ad offrire risorse insufficienti, pretende dividere e mettere a confronto i popoli e danneggiare i paesi in via di sviluppo condizionando l’accesso alle risorse di adattamento in cambio di misure di mitigazione. In aggiunta, è inaccettabile che nei processi di negoziazione internazionale si voglia categorizzare i paesi in via di sviluppo in base alla loro vulnerabilità al cambiamento climatico generando dispute, diseguaglianze e divisioni tra loro.

L’immensa sfida che affrontiamo come umanità per limitare il riscaldamento globale e raffreddare il pianeta si vincerà solo portando avanti una profonda trasformazione dell’agricoltura verso un modello sostenibile di produzione agricola contadina ed indigena/originaria e altri modelli e pratiche ancestrali ecologiche che contribuiscano a trovare una soluzione al problema del cambiamento climatico e assicurino la Sovranità Alimentare, intesa come il diritto dei popoli a controllare le proprie sementi, terre, acqua e produzione di cibo, garantendo, attraverso una produzione in armonia con la Madre Terra, locale e culturalmente appropriata, l’accesso dei popoli ad un’alimentazione sufficiente, variata e nutriente in accordo con la Madre Terra  ed aumentando la produzione autonoma (partecipativa, comunitaria e condivisa) di ogni nazione e popolo.

Il cambiamento climatico sta già producendo impatti profondi sull’agricoltura e le abitudini di vita dei popoli indigeni/originari e dei contadini del mondo e tali impatti andranno aggravandosi nel futuro.

L’agroindustria attraverso il suo modello sociale, economico e culturale della produzione capitalista globalizzata e la sua logica di produzione degli alimenti per il mercato e non per soddisfare il diritto all’alimentazione, è una delle cause principali del cambiamento climatico. I suoi mezzi tecnologici, commerciali e politici non fanno altro che rendere più profonda la crisi climatica e incrementare la fame sul pianeta.  Per questa ragione rifiutiamo i Trattati di Libero Scambio e gli Accordi di Associazione e qualsiasi forma di applicazione dei Diritti di Proprietà Intellettuale sulla vita, gli attuali pacchetti tecnologici (agrochimici, transgenici) e quelli che vengono offerti come false soluzioni (agrocombustibili, geoingegneria, nanotecnologie, tecnologia Terminator e simili) che serviranno soltanto ad acuire la crisi attuale.

Allo stesso tempo denunciamo questo modello capitalista che impone megaprogetti di infrastrutture, invade i nostri territori  con progetti estrattivi, privatizza e mercifica l’acqua e militarizza i territori espellendo i popoli indigeni e i contadini dai loro territori, impedendo la Sovranità Alimentare e rendendo più profonda la crisi socioambientale.

Esigiamo il riconoscimento del diritto di tutti i popoli, degli esseri viventi e della Madre Terra ad accedere e godere dell’acqua e appoggiamo la proposta del Governo boliviano di riconoscere l’acqua  come un Diritto Umano Fondamentale.

La definizione di bosco usata durante i negoziati della Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici, che include le piantagioni, è inaccettabile. Le monocolture non sono boschi. Pertanto, esigiamo una definizione nei negoziati che riconosca i boschi nativi, la foresta e la diversità degli ecosistemi della terra.

La Dichiarazione dell’Onu sui Diritti dei Popoli Indigeni deve essere pienamente riconosciuta, implementata e integrata nei negoziati sui cambiamenti climatici. La strategia e l’azione migliori per evitare la deforestazione ed il degrado e proteggere i boschi nativi e la foresta, è riconoscere e garantire i diritti collettivi delle terre e territori  dato che la maggior parte dei boschi e delle foreste si trovano nei territori dei popoli e delle nazioni indigene e delle comunità contadine e tradizionali.

Condanniamo i meccanismi di mercato, come il meccanismo REDD (Riduzione delle emissioni della deforestazione e degrado forestale) e le sue versioni + e ++, che viola la sovranità dei Popoli ed il loro diritto al consenso libero, previo ed informato, così come la sovranità degli Stati nazionali, e viola i diritti, gli usi e i costumi dei Popoli ed i Diritti della Natura.

I paesi inquinatori sono obbligati a trasferire in maniera diretta le risorse economiche e tecnologiche per pagare il ristabilimento ed il mantenimento dei boschi e delle foreste, in favore dei popoli e delle strutture ancestrali indigene, originarie e campesine. Questa sarà una compensazione diretta ed addizionale rispetto alle fonti di finanziamento promesse dai paesi sviluppati, al di fuori del mercato del carbonio e non costituendo mai compensazione di carbonio (offsets). Chiediamo ai paesi di fermare le iniziative locali nei boschi e nelle foreste basati su meccanismi di mercato che propongono risultati inesistenti e condizionati. Esigiamo dai governi un programma mondiale di restaurazione dei boschi nativi e delle foreste diretto e amministrato dai popoli, attraverso l’implementazione di semi fruttiferi e di flora autoctoni. I governi devono eliminare le concessioni forestali e appoggiare il mantenimento del petrolio sotto terra, fermando lo sfruttamento degli idrocarburi nelle foreste.

Esigiamo che gli Stati riconoscano, rispettino e garantiscano l’effettiva applicazione degli standard internazionali dei diritti umani e dei diritti dei Popoli Indigeni, in particolare la Dichiarazione delle Nazioni Unite sui Diritti dei Popoli Indigeni e l’Accordo 169 dell’OIL, tra gli altri, nel quadro di negoziati, politiche e misure atte a risolvere le sfide determinate dai cambiamenti climatici. In particolare, chiediamo agli Stati di riconoscere giuridicamente la preesistenza del diritto sui nostri territori, terre e risorse naturali per rendere possibile e per rafforzare le nostre forme di vita tradizionali e contribuire efficacemente alla soluzione del problema del cambiamento climatico.

Chiediamo la piena e reale applicazione del diritto alla consultazione, la partecipazione ed il consenso previo, libero ed informato dei Popoli Indigeni in tutti i processi di negoziazione così come nel disegno delle misure relative al cambiamento climatico.

Il degrado ambientale ed i cambiamenti climatici  raggiungeranno livelli critici ed avranno come una delle conseguenze principali, la migrazione interna ed internazionale. Secondo alcune stime, nel 1995 c’erano circa 25 milioni di migranti climatici, mentre oggi sono circa 50 milioni e le proiezioni per il 2050 vanno dai 200 ai 1.000 milioni di persone che saranno costrette a spostarsi a causa di situazioni generate dai cambiamenti climatici.

I paesi sviluppati devono assumersi la responsabilità dei migranti climatici, accogliendoli nei loro territori e riconoscendo i loro diritti fondamentali, attraverso la firma di accordi internazionali che contemplino la definizione di migrante climatico in modo tale che tutti gli stati la rispettino.

Costituire un Tribunale Internazionale di Coscienza per denunciare, dare visibilità, documentare, giudicare e sanzionare le violazioni dei diritti di migranti, rifugiati/e e sfollati nei paesi d’origine, transito e destinazione, identificando chiaramente le responsabilità di Stati, imprese e altri attori.

L’attuale finanziamento destinato ai paesi in via di sviluppo per i cambiamenti climatici e la proposta dell’accordo di Copenaghen sono esigui. I paesi sviluppati devono impegnarsi ad un nuovo finanziamento annuale, in aggiunta all’Aiuto Ufficiale allo Sviluppo e di provenienza pubblica, di almeno il 6% del PIL per fare fronte ai cambiamenti climatici nei PVS. Tutto ciò è fattibile se si pensa che tali paesi spendono una cifra simile per la difesa nazionale e che hanno destinato una cifra 5 volte superiore per salvare banche e speculatori dalla banca rotta, cosa che mette seriamente in discussione le loro priorità mondiali e la loro volontà politica. Questo finanziamento deve essere diretto, senza condizioni e non deve mettere in pericolo la sovranità nazionale né l’autodeterminazione delle comunità e dei gruppi coinvolti.

A causa dell’inefficienza del meccanismo attuale, alla Conferenza che si terrà in Messico, si dovrà stabilire un nuovo meccanismo di finanziamento che funzioni sotto l’autorità della Conferenza delle Parti della Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici, rendendo conto alla stessa, con una rappresentazione significativa dei paesi in via di sviluppo per garantire il compimento degli impegni di finanziamento dei paesi, Allegato 1.

E’ stato constatato che i paesi sviluppati  hanno incrementato le loro emissioni nel periodo 1990-2007, nonostante avessero manifestato che la riduzione sarebbe stata coadiuvata con meccanismi di mercato.

Il mercato del carbonio si è trasformato in un affare lucrativo, che mercifica la nostra Madre Terra e non rappresenta un’alternativa per affrontare il cambiamento climatico, dato che saccheggia, devasta la terra, l’acqua e la vita stessa.

La recente crisi finanziaria ha dimostrato che il mercato è incapace di regolare il sistema finanziario, che è fragile e insicuro davanti alla speculazione e all’entrata in scena di agenti intermediari, pertanto, sarebbe assolutamente irresponsabile lasciare nelle sue mani la cura e la protezione dell’esistenza umana stessa e della nostra Madre Terra.

Consideriamo inammissibile che i negoziati in corso pretendano di creare nuovi meccanismi che amplino e promuovano il mercato del carbonio benchè tutti i meccanismi già esistenti non abbiamo mai risolto il problema del Cambiamento Climatico né si siano mai trasformati in azioni reali e dirette per la riduzione dei gas serra.

È indispensabile sia esigere l’attuazione degli impegni assunti dai paesi sviluppati nella Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici in materia di sviluppo e trasferimento di tecnologie, sia rifiutare la “vetrina tecnologica” proposta dai paesi sviluppati che commercializzano soltanto la tecnologia. È fondamentale stabilire delle linee per creare un meccanismo multilaterale e multidisciplinare per un controllo partecipativo, la gestione e la valutazione continua dello scambio di tecnologie. Tali tecnologie devono essere utili, pulite e socialmente adeguate. Allo stesso modo è fondamentale stabilire un fondo di finanziamento e inventario di tecnologie appropriate e libere dai diritti di proprietà intellettuali, in particolare, di brevetti che debbano passare da monopoli privati a dominio pubblico, di libero accesso e basso costo.

La conoscenza è universale e per nessun motivo può essere oggetto di proprietà privata e di uso privato, così neanche le sue applicazioni in forma tecnologica. È dovere dei paesi sviluppati condividere le loro tecnologie con i paesi in via di sviluppo, creare centri di ricerca per lo sviluppo di tecnologie e innovazioni proprie, così come difendere e promuovere il loro sviluppo e applicazione per il vivir bien. Il mondo ha bisogno di recuperare, imparare di nuovo i principi e gli approcci del patrimonio ancestrale dei popoli indigeni per fermare la distruzione del pianeta, così come le conoscenze e le pratiche ancestrali e il recupero della spiritualità nella riabilitazione del vivir bien in collegamento con la Madre Terra.

Considerando la mancanza di volontà politica dei paesi sviluppati di soddisfare in maniera effettiva i loro obblichi e impegni assunti nell’ambito della Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sul Cambiamento Climatico e il Protocollo di Kyoto, e a fronte della mancanza di un organo giuridico internazionale che prevenga e sanzioni tutti i delitti e crimini climatici e ambientali che attentano ai diritti della Madre Tierra e dell’umanità, chiediamo la creazione di un Tribunale Internazionale di Giustizia Climatica e Ambientale che abbia la capacità giuridica vincolante di prevenire, perseguire e punire gli Stati, le Imprese e persone che per azione o omissione contaminano e provocano il cambiamento climatico.

Sostenere gli Stati che presentano domanda presso la Corte Costituzionale di Giustizia contro i paesi sviluppati che non rispettano i loro impegni nell’ambito della Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sul Cambiamento Climatico e il Protocollo di Kyoto, inclusi gli impegni a ridurre le emissioni di gas serra.

Invitiamo i popoli a proporre e promuovere una profonda riforma delle Nazioni Unite (ONU), in modo che tutti gli Stati Membri rispettino le decisioni del Tribunale Internazionale di Giustizia Climatica e Ambientale.

Il futuro dell’umanità è in pericolo e non può accettare che un gruppo di governanti di paesi sviluppati decidano per tutti i paesi come hanno cercato infruttuosamente di fare dudurante la Conferenza delle Parti di Copenhaguen. Questa decisione spetta a noi, tutti i popoli. Per questo è necessaria la realizzazione di un Referendum Mondiale sul cambiamento climatico nel quale tutti siamo consultati su: il livello di riduzione delle emissioni che i paesi sviluppati e le imprese internazionali devono rispettare, il finanziamento che devono emettere i paesi sviluppati; la creazione di una Corte Internazionale di Giustizia Climatica; la necessità di una Dichiarazione Universale dei diritti della Madre Terra e la necessità di cambiare l’attuale sistema capitalistico.

Il processo del Referendum Mondiale, plebiscitario o consultazione popolare, sarà frutto di un percorso di preparazione che garantisca lo sviluppo positivo dello stesso.

Al fine di coordinare le nostre attività internazionali e implementare i risultati di questo “Accordo dei Popoli” chiamiamo a dare vita ad un Movimento Mondiale dei Popoli per la Madre Terra che si basi sui principi di complementarierà e rispetto per le diverse origini e visioni dei suo membri, costituendosi come uno spazio ampio e democratico di coordinamento e articolazione delle azioni a livello mondiale.

A tale fine adottiamo il piano di azione mondiale perchè in Messico i paesi sviluppati dell’Annesso 1 rispettino il quadro giurdico esistente e riducano le loro emissioni di gas effetto serra del 50% e assumano le differenti proposte contenute in questo Accordo.

Infine, siamo d’accordo a realizzare la 2ª Conferenza Mondiale dei Popoli sul Cambiamento Climatico e i Diritti della Madre Terra nel 2011 come parte di questo processo di costruzione del Movimento Mondiale dei Popoli per la Madre Terra e per reagire ai risultati della Conferenza sul Cambio Climatico che si realizzerà alla fine di questo anno a Cancun in Messico.

“I conflitti ambientali e sociali hanno creato le condizioni per la formazione di una risposta nuova che, a partire dalla democrazia deliberativa e dalla responsabilizzazione collettiva, lavora alla costruzione di un nuovo paradigma di civiltà, fondato sul buen vivir – cioè su una vita in armonia con la natura, della quale tutta la comunità è parte [  ].

La parola krisis smetterà di apparirci così fosca e ritornerà ad essere ciò che nel passato è sempre stata: un momento che separa una maniera sbagliata di essere da un’altra, migliore e più giusta per tutti e tutte” Giuseppe De Marzo,  Buen Vivir

Dialogo con

GIUSEPPE DE MARZO

economista, giornalista, scrittore, fondatore dell’Associazione ASUD

autore di Buen Vivir

protagonista della Feria Internacional del Agua, la Conferenza Mondiale dei Popoli sui Cambiamenti Climatici e i Diritti della Madre Terra,

organizzata lo scorso aprile dal Presidente della Bolivia Evo Morales, dieci anni dopo la ‘Guerra dell’acqua’ di Cochabamba

BERNABÈ VASQUEZ

rappresentante guatemalteco, esperto di tecniche comunitarie di gestione dell’acqua

Director Departamento de Atencion a la Comunidad dell’Associazione CDRO.

Interviene il Sindaco GIORGIO DEL GHINGARO

coordina l’Assessore all’Ambiente ALESSIO CIACCI

promuovono l’iniziativa:

COMUNE DI CAPANNORI

Associazione ASUD Toscana

Fratelli dell’Uomo (FDU) Toscana Associazione per la solidarietà internazionale con il Sud del mondo

Osservatorio per la Pace

Comitato referendario provinciale ‘Acqua pubblica’ Lucca

Buen vivir a Pisa

Pisa, giovedì 27 maggio ore 21.30

Centro Sociale Rebeldia, via Cesare Battisti 51  – Pisa

Presentazione del libro di Giuseppe De Marzo

“Buen Vivir- Per una nuova democrazia della Terra”

E testimonianze sulla recente conferenza mondiale dei popoli a Cochabamba convocata dal presidente boliviano Evo Morales

Sarà presente l’autore Giuseppe De Marzo

Introduce Andrea Del Testa


Buen Vivir a Livorno

Pubblichiamo da JRS DISPATCHED

Italia: Procura rinvia a giudizio due pubblici ufficiali

Roma, 23 aprile 2010 — La Procura di Siracusa ha rinviato a giudizio il direttore dell’ufficio immigrazione della Polizia, Rodolfo Ronconi, e del generale della Guardia di Finanza Vincenzo Carrara per concorso in violenza privata.

A partire dall'accordo tra Libia e Italia, il flusso di migranti   si é quasi fermato (Sicilia, Italia: Il Giornale)I due sono accusati di aver ordinato il respingimento forzato di 75 immigrati che il 30 agosto dell’anno scorso viaggiavano a bordo di un gommone provenienti dalla Libia. Il gommone, che si trovava in acque internazionali a sud della Sicilia, era stato intercettato da un’imbarcazione della Guardia di Finanza, la Denaro, e ai migranti era stato ordinato di salire a bordo. Anziché essere condotti in Italia, erano stati riportati in Libia, affidandone il destino alle autorità locali.

Secondo la Procura di Siracusa, l’imbarcazione era italiana, quindi si sarebbe dovuta applicare la legislazione internazionale

Sicurezza negata a migliaia di persone

L’agenzia delle NU per i rifugiati (UNHCR) per l’Europa meridionale ha affermato che dalla metà del 2009, nel Canale di Sicilia è stato negato l’ingresso in Italia a migliaia di migranti e rifugiati.

L’UNHCR ribadisce la propria preoccupazione per la politica di respingimento in Libia posta in atto dal governo italiano senza che siano verificate eventuali necessità di protezione internazionale, e rigetta l’affermazione del governo secondo cui nessuno dei migranti riportati in Libia aveva intenzione di fare richiesta di asilo; o che laddove fossero state avanzate delle richieste, queste erano state prese in esame dalle autorità italiane.

Prove raccolte dall’UNHCR suggeriscono che a nessuno di quanti si trovavano a bordo è stata offerta una reale possibilità di chiedere asilo, nonostante la maggior parte di loro provenisse da paesi lacerati dal conflitto come la Somalia e l’Eritrea.

Lo scorso dicembre, il JRS Malta ha pubblicato una raccolta di testimonianze, Do They Know?, di richiedenti asilo cui è stata garantita protezione a Malta, e che mettono in evidenza le esperienze vissute in Libia. Queste testimonianze rivelano le incredibili difficoltà che molti migranti devono affrontare in Libia, paese di transito quasi obbligatorio per gli africani che provengono dall’area sub-sahariana in fuga dalle violenze e dalle violazioni dei diritti umani ampiamente diffuse nei loro paesi di origine.

Di Fabrizio Lo Russo

In Messico e nel mondo si parla tanto degli oltre 20mila morti in 3 anni causati dalla guerra al narcotraffico e dalla militarizzazione lanciate dal presidente Calderon, ma ogni tanto tornano alla ribalta i conflitti sociali che vengono rispolverati dai media mainstream solo quando coinvolgono qualche straniero o fanno vittime eccellenti. Purtroppo le morti silenziose e la violenza endemica che regnano nel Messico profondo, così come lo ha battezzato l’antropologo Bonfil Batalla, sono sempre state una costante soprattutto nelle zone rurali più abbandonate dallo Stato. E’ proprio in questo Messico che è avvenuta l’imboscata contro la carovana umanitaria in cui il 27 aprile scorso hanno perso la vita la messicana Beatriz Cariño e il finlandese Jyri Haakkola, entrambi osservatori e difensori dei diritti umani, e sono stati feriti altri 15 attivisti in seguito a un attacco di un gruppo di paramilitari nel municipio autonomo di San Juan Copala, stato di Oaxaca.

La lacerazione del tessuto sociale, le guerre tra fazioni politiche, l’autoritarismo semi feudale, il cosiddetto caudillismo, e la povertà estrema sono ancora la normalità in immensi territori che sono completamente esclusi dalla modernità e dai cambiamenti politici ed economici che vive solo una parte del paese. Il Messico profondo, quello delle tradizioni indigene che cambiano e resistono allo stesso tempo e quello del meticciato imperfetto, riuscito solo a metà, continua quindi a soffrire e a cercare faticosamente un destino.
Alle 11 del mattino del 27 aprile è partita da Huajuapan de Leon una carovana composta da una cinquantina di persone in viaggio su varie jeep e automobili verso la località di San Juan Copala nel territorio conosciuto come “la mixteca” nella parte sud dello Stato di Oaxaca, una delle zone più povere del Messico e confinante con il Chiapas.

Si tratta di una regione aspra e montagnosa ad alta densità di popolazione indigena, soprattutto di etnia zapoteca, mixteca e triqui, in cui sono forti le simpatie nei riguardi degli esperimenti autonomisti portati avanti dalle comunità zapatiste e della “Otra Campaña”, “l’altra campagna” politica promossa dall’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale e da uno de suoi più noti portavoce, il Subcomandante Insurgente Marcos alias delegado cero, in ripudio del sistema dei partiti tradizionali e in favore dell’autodeterminazione indigena.
La brigata umanitaria era formata da membri della APPO (Assemblea Popolare dei Popoli di Oaxaca) e della sezione 22 di Oaxaca del sindacato degli insegnanti, da organizzazioni come Cactus (pro diritti umani) e Vocal (radio comunitarie), da osservatori internazionali di nazionalità italiana, finlandese, belga e tedesca, da giornalisti della rivista messicana Contralinea e da membri della Rete di Radio e Comunicatori Indigeni del Sudest Messicano.

L’obiettivo della carovana era di portare degli aiuti umanitari agli abitanti di San Juan dato che questi si trovano privi di corrente elettrica e sono assediati dal gennaio scorso dai paramilitari dell’UBISORT (Unione per il Benessere della Regione Triqui, gruppo fondato nel 1994 e legato al PRI, Partido Revolucionario Institucional). LosTriquis.jpgIl PRI rappresenta attualmente una forza di governo a livello nazionale in alleanza con il partito del presidente, il PAN (Partido Accion Nacional, di destra) e da quasi 80 anni è la forza politica dominante nello Stato di Oaxaca. Allo stesso PRI appartiene il governatore Ulises Ruiz, funzionario in carica dal 2005 e protagonista di una lunga serie di violazioni dei diritti umani e gravissimi atti repressivi durante i moti di protesta del sindacato degli insegnanti e della APPO nel 2006: il saldo dei suoi anni di governo parla di una decina di sparizioni forzate e almeno 62 vittime (26 di queste, tra cui il giornalista statunitense Brad Will, solamente nel biennio 2006-2007 durante le fasi più tese della protesta che portò a una vera e propria guerra civile nella città di Oaxaca).
L’assedio dell’UBISORT-PRI è stato già denunciato in varie occasioni dagli abitanti di San Juan Copala in quanto da mesi impedisce la realizzazione delle regolari attività nel comune, blocca l’arrivo di merci, l’accesso all’acqua e lo svolgimento delle lezioni nelle scuole oltre ad essere responsabile di numerose morti violente. In realtà la situazione è complicata e aggravata dalla presenza simultanea di altri due gruppi in lotta nella comunità indigena triqui di San Juan per cui anche la stessa UBISORT ha riportato una quindicina di morti tra i suoi militanti.

Da una parte c’è il MULT o Movimento Unificatore e di Lotta Triqui, attivo sin dagli anni 50. All’epoca della sua fondazione lottava per democratizzare l’esercizio del potere e nel 2003 s’è trasformato nel partito politico Unidad Popular, attualmente alleato del PRI. In seguito alla “scesa in campo” del MULT a livello elettorale e al suo progressivo allontanamento dagli obiettivi originari nasce il MULTI, il Movimento di Unificazione e di Lotta Triqui Indipendente, che è parte integrante della APPO e dal gennaio del 2007 gestisce le attività del comune di San Juan Copala secondo le modalità di autogoverno tracciate dai municipi autonomi del Chiapas zapatista.
San Juan è stato il primo territorio nella regione di Oaxaca a darsi questa forma di governo, fatto che è sgradito alle autorità statali e agli altri due gruppi che prima si spartivano il potere indisturbati. In pratica grazie al sostegno della APPO e del sindacato degli insegnanti il MULTI occupa l’edificio del comune e governa il centro del paesino mentre l’UBISORT-PRI e il MULT controllano gli accessi e le alture circostanti in cui né l’esercito né la polizia possono mettere piede.

Verso le tre del pomeriggio proprio dove comincia il loro territorio e finisce la strada asfaltata tra il capoluogo Santiago Juxtlahuaca e San Juan Copala, presso la zona denominata “La Sabana”, è stata messa in atto l’imboscata di 15 uomini armati e incappucciati dell’UBISORT contro gli attivisti che ha provocato 2 morti, 15 feriti e numerosi dispersi che sono riapparsi a poco a poco nei giorni seguenti dopo essere sfuggiti ai paramilitari rifugiandosi sulle montagne. Il recupero dei cadaveri è stato possibile solo 48 ore dopo la sparatoria quando sessanta poliziotti hanno circondato i veicoli rimasti sulla strada che erano perforati da decine di pallottole. L’accesso alla stampa è stato proibito in tutta la zona. Meno di mille abitanti, qualche risorsa mineraria e un’orgogliosa tradizione linguistica e culturale formano il patrimonio di San Juan Copala, una comunità sconvolta da decenni di lotte intestine e becero autoritarismo che l’esperimento autonomista cerca di emendare malgrado le divisioni interne e le ingerenze esterne. MapaSanJuanenMexico.jpg.gif
Forte della connivenza dell’autorità statale e del clima d’impunità imperante il capo dell’UBISORT, Rufino Juarez, aveva addirittura minacciato rappresaglie contro chi avesse osato attraversare la zona senza il suo consenso, ma tali dichiarazioni non avevano fermato i militanti della carovana. In effetti l’assenza totale di soluzioni ai conflitti e di giustizia nei numerosi casi di omicidio nella regione triqui hanno nel tempo giustificato una situazione incontrollabile di arbitrarietà e violenza paramilitare e parastatale gravissima che abbiamo sperimentato di nuovo con questa mattanza. L’UBISORT ha dichiarato che non si tratta di una strage ma di un “auto-attentato” auspicato e organizzato dal municipio autonomo (e dal suo referente politico, il MULTI) per attirare l’attenzione. Anche il MULT s’è allineato e ha accusato il MULTI dell’attentato. Dal canto loro gli insegnati di Oaxaca e la APPO hanno diffuso comunicati a mezzo stampa in cui condannano la strage di San Juan, attribuiscono la responsabilità dell’attentato e dell’insicurezza nella zona al governatore e chiedono giustizia. La manifestazione del primo maggio in città s’è fatta portavoce della richiesta di un chiarimento giudiziario immediato in merito ai fatti del 27 aprile insieme alla consueta lista di rettificazioni salariali e al pieno adempimento delle direttive sancite dalla suprema corte di giustizia messicana in seguito alle comprovate violazioni dei diritti umani contro la popolazione oaxaquegna nel 2006 (Storia del movimento a Oaxaca:http://lamericalatina.net/category/oaxaca/page/3/).
Il 4 luglio prossimo ci saranno a Oaxaca le elezioni per il rinnovo del parlamento locale e del governatore e la posta in gioco è alta visto che questa volta il candidato dell’opposizione, Gabino Cuè, sembra in grado di poter sconfiggere Eviel Perez del PRI che cerca quindi di rafforzare i suoi centri di potere e di reprimere la dissidenza. Storicamente le annate elettorali e i mesi di campagna sono infatti caratterizzati da escalation di violenza e proteste sia quando sia a livello nazionale che a livello locale. L’idea che la tragedia di San Juan possa servire in modi diversi a entrambe le coalizioni per screditare l’avversario e capitalizzare voti e consensi fa rabbrividire ma è comunque un’ipotesi concreta che lentamente prende forma. La APPO e la sezione 22 del sindacato non sono dei partiti politici ma sono sicuramente anti-PRI e anti governativi e ora hanno un motivo legittimo in più per attaccare Ulises Ruiz essendo stati attaccati direttamente. La coalizione di Gabino Cuè formata da PAN e PRD sta già screditando il PRI per quanto è accaduto mentre quest’ultimo recita la parte dell’innocente e accusa il municipio autonomo di San Juan Copala di provocare la violenza.

Rispetto alle prese di posizione di questi interlocutori il governatore Ulises Ruiz s’è limitato a mentire sostenendo di non essere stato informato della carovana, in palese contraddizione con quanto certificato da alcuni avvisi inviati con sufficiente anticipo dagli attivisti e dal sindacato alla polizia di Oaxaca. Ruiz ha inoltre sfoggiato una perla della sua cultura arretrata e burocratica dichiarando ai giornali che la presenza di stranieri e difensori dei diritti umani a Oaxaca è “cosa strana” e chiedendosi “che cosa ci stessero facendo lì degli stranieri che non sappiamo se siano turisti o che tipo di permesso di soggiorno abbiano”.MapaSanJuan.jpg.gif
Una nota sul contesto. Ogni volta che in Messico uno straniero viene coinvolto in una qualunque situazione “critica” o politica, ci si appella all’articolo 33 della costituzione che prevede la possibilità d’espulsione per le persone “non grate” o che realizzano attività politiche nel paese ed è spesso gioco forza fare leva su un diffuso sentimento nazionalista e sulla colpevolizzazione dello straniero per sviare l’attenzione. Quando finì la Rivoluzione messicana nel 1917 l’articolo 33 venne pensato in funzione antiamericana per evitare qualsiasi tentativo di ingerenza esterna che compromettesse seriamente la sovranità del paese mentre oggi viene spesso utilizzato per espellere gli “indesiderati” stranieri simpatizzanti dei movimenti sociali tanto che durante un dibattito è comune sentirsi dire più o meno scherzosamente la battuta “stai zitto o ti applichiamo il 33″. Nel caso di San Juan Copala è morto un europeo (oltre a una messicana), ci sono pistoleri e paramilitari a piede libero protetti dal PRI, inoltre l’ambasciata finlandese, Amnesty International, l’ONU e decine di associazioni nazionali ed estere hanno denunciato il governo di Oaxaca e quello messicano per l’insufficiente rispetto dei diritti umani e la prima dichiarazione che ottengono è in realtà una richiesta di spiegazioni circa il tipo di permesso di soggiorno o la “strana” presenza di stranieri in una carovana pacifista mitragliata a sangue freddo.

Che razza di paese

In che razza di paese viviamo? Giudicatelo voi.

Io voglio solo inaugurare con questo post una rubrica permanente del blog di A Sud Toscana, che in qualche modo misuri la febbre al grado di inciviltà xenofoba  in cui l’Italia sta cadendo. Non pretendo di raccontare proprio tutto quello che è successo nelle  ultime settimane e negli ultimi mesi, mi baso solo su alcuni articoli trovati su internet, citandone la fonte. Sono sicuro che ce ne siano molti di più ma spero di rendere giustizia alle vittime degli incresciosi avvenimenti, che sono riuscito a trovare, denunciandoli.

Iniziamo da Roma, apprendo da un post di Stranieri in Italia del 4 febbraio 2010, che al caffè si paga un sovrapprezzo se si è immigrati. L’ultimo caso si è verificato a Torcervara, nella periferia est di Roma.  Il cronista del Corriere che ha denunciato il fatto, era  in fila alla cassa per un caffè, quando è toccato a lui ha pagato 75 centesimi, come da prezzo esposto. Poi è arrivato il turno di una cliente e a lei il caffè è costato due euro. Inutile protestare, due euro. La donna era di etnia rom e lavora come operatrice in una cooperativa che si occupa di scolarizzazione in un campo nomadi lì vicino. Al Corriere ha detto che il trattamento di “sfavore” non è una novità: fino al giorno prima, anzichè pagarlo due euro, il caffè lo pagava comunque un euro e mezzo.  “Un giorno me l’hanno anche detto chiaro e tondo, il caffè costa caro perché così ve ne andate da qualche altra parte…” ha raccontato. I suoi colleghi confermano, dicono di aver segnalato la cosa alle forze dell’ordine, ma finora il prezzo della tazzina continua a variare in base alla faccia di chi la beve.

Sempre da Stranieri in Italia si apprende che a Milano vengono fatti controlli nelle case di immigrati razzisti ed illegali. È la regola del racial (o ethnic) profiling, una forma di discriminazione che scatta quando le forze dell’ordine  si basano sui tratti etnici o sulla provenienza di una persona per valutarne la pericolosità. Una delle conseguenze più comuni è che un nero o un arabo hanno più probabilità di essere fermati per un controllo rispetto a un bianco.  Secondo “Il libro nero della Sicurezza”, un’inchiesta del giornalista Fabrizio Cassinelli che sta per arrivare in libreria, sarebbe questa la pericolosa deriva della Polizia di Milano, impegnata nei controlli nelle case degli immigrati. Gli agenti avrebbero anche utilizzato trucchi e travestimenti, agendo senza l’autorizzazione dell’autorità giudiziaria o altri motivi che, a rigor di legge, giustificherebbero la violazione di un domicilio.Le agenzie di stampa hanno anticipato alcuni passaggi dell’inchiesta. “Quando noi entravamo in un palazzo era sempre su segnalazione di un amministratore, o di qualche inquilino che ci raccontava di appartamenti abitati da molti stranieri. Anche senza denunce, bastava una telefonata” racconta un agente milanese. “Alcuni – continua  – mandavano delle mail in Assessorato, altri chiamavano il centralino del comando. Per convincere la gente ad aprire ci si presentava come operai del gas e per essere ancora più convincenti dicevamo che c’era una perdita”.  Nella messinscena  i poliziotti utilizzavano anche “delle bombolette di odorizzatore, che è quella sostanza che si addiziona al gas della rete, che di suo è inodore, per fare in modo che si sentisse proprio l’odore del gas, appunto. E quelli aprivano”.

A chi gli contesta una pratica al di fuori della legalità, l’agente controbatte che “quelli mica erano italiani, quelli si evitavano. E quelli che non aprivano li lasciavamo perdere”. Un cittadino senegalese conferma: “Con la scusa di vedere gli impianti del gas, mi hanno fotografato tutta la casa, mi hanno chiesto come cucino, se la donna che si trovava in casa era la mia fidanzata…Ma poi tutto questo a che titolo? E dove sono finiti quei documenti?”.

Passiamo adesso al famigerato bonus bebè. Apprendo dall’Ansa che sembra possa essere concesso solo al primo figlio nato da residenti e all’interno del matrimonio. Accade a Ceresara, 3mila abitanti nel mantovano. L’amministrazione di centrodestra lo conferma quest’anno, escludendo ancora figli di extracomunitari, coppie di fatto e ragazze madri. Passato da 300 a 500 euro, il bonus sarà erogato a coppie sposate residenti da oltre 5 anni. Regolamento approvato in Consiglio comunale con il no della minoranza, che ricorrerà al Tar contro norme ‘non costituzionali.

Venerdì 30 aprile un trentenne di nazionalità albanese è stato accoltellato al cuore in via Torricelli, a Milano. L’uomo, soccorso dal 118, è stato portato all’ospedale San Paolo, dove è morto. Una volante della polizia giunta sul posto non ha trovato testimoni dell’omicidio. Sul luogo dell’accoltellamento non c’erano neppure videocamere le cui riprese avrebbero potuto essere utili a smascherare l’autore dell’aggressione.

Da Giornale di Vicenza apprendo che ci sono stati insulti a sfondo razziale durante la Stravicenza. Vittima un ragazzo di colore; responsabili un gruppetto di giovani e meno giovani vicentini. L’accusa: lo avrebbero insultato in maniera molto pesante, soprattutto per il colore della sua pelle, dopo che era intervenuto in difesa di un amico (italiano) che stava discutendo con un altro concorrente. Il giovane F. O., non ancora 18 anni, ha formalizzato una articolata denuncia in procura (che ha aperto un’inchiesta) sostenendo di essere stato vittima di ingiurie e minacce a sfondo razziale; non ha voluto fare querela per le lesioni perché, pur essendo caduto, non si era rivolto al pronto soccorso per lievi traumi e soprattutto perché la sua, dice, «è una questione di principio».I fatti contestati sono avvenuti durante l’ultima edizione della Stravicenza, la manifestazione podistica giunta alla decima edizione e che si ispira ai valori più alti dello sport, non certo a quelli del razzismo.  Il ghanese, figlio di immigrati ma residente da anni nel Vicentino, dove si è ben integrato (frequenta le superiori ed è iscritto ad una società sportiva), aveva in animo di partecipare alla gara, perché avrebbe qualità nella corsa. Nelle settimane precedenti, però, era stato vittima di un infortunio e per questo aveva deciso di essere presente alla passeggiata di qualche chilometro in centro città. In base a quanto è stato ricostruito, l’episodio è avvenuto lungo viale Mazzini, fra il teatro e la questura. L’africano ha spiegato che stava camminando con alcuni amici, in mezzo alla gente, e di fianco a lui due persone sono entrate in contatto. Uno ha subito un pestone, o una ginocchiata, e l’altro gli ha risposto per le rime dando vita ad una breve discussione. Uno dei contendenti era amico dell’africano, che è corso in sua difesa. A quel punto gli amici dell’altro, una mezza dozzina di persone, lo hanno allontanato a spintoni, facendolo cadere a terra, e offendendolo in maniera assai pesante. Come? Le solite frasi idiote: «Negro di m… senti quanto puzza, sai di m…, tornatene a casa fra i tuoi negri… rimetti piede qui quando sarai bianco… Quelli come te bisognerebbe bruciarli da piccoli», e via discorrendo.  Il giovane è rimasto molto turbato. A suo dire, in tanti anni che vive in Italia, non gli era mai successa una cosa del genere.
Sempre dall’Ansa si apprende che sono in corso accertamenti da parte della questura di Treviso su un caso di razzismo contro una giovane nera all’interno di un locale dove si trovava in compagnia di amici. Verso mezzanotte di qualche giorno fa, secondo le testimonianze, era entrato un folto gruppo di giovani dell’estrema destra i quali, dopo aver dileggiato la giovane, hanno intonato un coro dicendo ‘Candeggiamo’ seguito dal nome della ragazza. Gli stessi molestatori avrebbero poi vergato svastiche e scritte sui muri delle case vicine. Altri avventori hanno lasciato il locale, dove, secondo il titolare, era in programma la festa di un gruppo di estrema destra. Lo stesso ha detto di non ricordare cori razzisti né di ricordare la presenza nel locale “di una ragazza di colore. C’é stata più confusione del solito ma nulla di male, altrimenti sarei intervenuto”.
La Repubblica invece ci racconta che la Lega questa volta sembra essere diventata membro dell’Accademia della Crusca. Sembra infatti che per aprire un esercizio economico, nel caso in cui il gestore sia straniero sia indispensabile un buon livello di conoscenza dell’Italiano

Prima s’impara l’italiano, poi si può cominciare a fare impresa. Insomma, se un extracomunitario vuole aprire un negozio in Italia deve prima superare un esame che attesti la sua conoscenza della lingua. La proposta arriva dalla deputata leghista Silvana Comaroli ed è contenuta in un emendamento al decreto legge incentivi presentato nelle commissioni Attività produttive e Finanze della Camera. ”Le regioni, nell’esercizio della potestà normativa in materia di disciplina delle attività economiche – si legge nell’emendamento – possono stabilire che l’autorizzazione all’esercizio dell’attività di commercio al dettaglio sia soggetta alla presentazione da parte del richiedente, qualora sia un cittadino extracomunitario, di un certificato attestante il superamento dell’esame di base della lingua italiana rilasciato da appositi enti accreditati”. Ma non solo un altro emendamento presentato dalla stessa deputata chiede invece lo stop delle insegne multietniche favoreggiando invece quelle in dialetto. ”Le regioni – si legge nel testo – possono stabilire che l’autorizzazione da parte dei comuni alla posa delle insegne esterne a un esercizio commerciale è condizionata all’uso di una delle lingue ufficiali dei Paesi appartenenti all’Unione europea ovvero del dialetto locale”.
Un altro episodio di razzismo in Veneto, un’altra brutta storia di inciviltà mitigata parzialmente da scuse tardive ma non scontate. Ancora una volta è Facebook il megafono della vergogna. Viaggia spesso su internet l’odio verso lo straniero, tra le pagine del social network più famoso del mondo.
Questa volta il protagonista è M. Z., giovane ventiduenne di Grantorto, piccolo centro in provincia di Padova. I gruppi da lui fondati su Facebook («Grantorto 24 ore di fuoco libero con gli extra disarmati… Chi ci sta?» e «Quelli che girando per Grantorto si chiedono: ma siamo a Kabul?») hanno suscitato grande sdegno e disapprovazione.
E’ stato un quarantacinquenne compaesano del ragazzo a lanciare l’allarme attraverso una lettera al Mattino di Padova, facendo luce su un episodio che rischiava di rimanere nell’ombra. Dura la reazione dei concittadini di Zenere, che hanno costretto quest’ultimo a rimuovere i gruppi e a chiedere scusa al sindaco di Grantorto: “M. è venuto da me – ha spiegato il primo cittadino – è stata una visita che non mi aspettavo. Lo conosco bene e ho molto gradito sia venuto a chiedere scusa. Mi ha confermato di non avere nulla contro gli extracomunitari, le sue intenzioni non erano cattive. E’ di Grantorto, è un ragazzo a posto, che lavora, bravo, fa l’elettricista”. ( basta, rischiamo di commuoverci, poverino, , n.d.r.) E’ lo stesso ragazzo poi a tentare di giustificarsi: “Mi assumo le mie responsabilità – spiega – Ho provveduto a rimuovere i due gruppi e non mi ritengo razzista. Ho sbagliato, non voglio che nessun giovane creda che quello che ho scritto siano effettivamente cose che penso”.
Per finire la storia che è stata raccontata da una certa Sarah con una lettera a Milano Today. Ve la riporto per intero: Certe cose devono essere raccontate, per darci la misura del livello di bassezza che ha raggiunto la nostra società. Per una volta però, quello che vi voglio raccontare non è successo direttamente a me, ma ad un mio collega. M. lavora nel mio stesso ufficio e ha un bambino piccolo di 2 anni e mezzo. Come tutte le persone che hanno figli, M si rivolge ad un pediatra di San Giuliano Milanese per la loro salute, le vaccinazioni e quant’altro (non avendo figli tutto l’universo dei pediatri mi è un poco sconosciuto). Direte voi qual è il problema? Beh il problema è che nello stabile di San Giuliano dove esercita, il pediatra è ostracizzato da tutti i condomini, tanto che per poter far salire i suoi pazienti al suo ambulatorio (primo piano) deve pagare una persona che le accompagni. Perché? Perché i vicini di casa della dottoressa temono il contagio di chissà quali malattie e, ci aggiungo io, temono i migranti che portano i loro figli a curarsi (dopotutto se i figli non li fanno loro in sto paese a natalità zero!). Entriamo nel dettaglio della situazione un attimo, così come mi è stata spiegata, così vi potete rendere conto dell’assurdità della questione. Lo studio della pediatra si trova in un complesso di tre palazzi, dotato di una postazione fissa per il custode, dove sono ubicati anche un commercialista e un consulente del lavoro (anche queste attività che contemplano tutte un via vai di clienti). Per poter salire dalla dottoressa, scala A al primo piano, bisogna chiedere al portiere: lui si occupa di citofonare al suo studio, indirizza i pazienti verso la scala A e li istruisce di attendere qualcuno che “scenderà a prendervi”. Qualcuno arriva infatti, senza il quale pare non si possa salire dalla pediatra: un signore gentile che, con una chiave, ti accompagna all’ascensore e ti fa salire a destinazione. La prima domanda che sorge spontanea è: se la preoccupazione è nel via vai costante di gente, perché anche al commercialista e al consulente del lavoro non è richiesto avere una figura “professionale” che accompagna i clienti dal portone di ingresso all’ufficio? La risposta purtroppo è ancora più semplice: nessun immigrato si reca in nessuno degli altri due uffici e quindi non ci sono “problemi per i condomini”. La cosa va avanti almeno dall’ottobre 2009 e la rivolta dei condomini è capitanata da un esponente locale del Pdl (tanto per cambiare no?), che sembra non darsi pace e aver deciso che lo studio della pediatra “non s’ha da fare”: non solo, il nostro eroe sta promuovendo per tutta San Giuliano l’eliminazione degli ambulatori medici dai palazzi. Per ora per la nostra dottoressa ci sono già di mezzo avvocati e querele, quindi per fortuna qualcuno si sta muovendo…e la pediatra non ha certo intenzione di dargliela vinta a questi razzisti!…

E questo è solo una piccola selezione di ciò che è successo negli ultimi mesi, si potrebbe continuare…

Andrea Del Testa

Fonti:

Ansa

Blizquotidiano

Il Giornale di Vicenza

Milano Today

Repubblica

Stranieri in Italia

Osservatorio sul razzismo in Italia: http://razzismoitalia.blogspot.com/