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Contro i banditi dell’acqua
A colloquio con Andrea Del Testa, referente toscano per l’associazione A Sud
a cura di Donatella Vassallo
L’acqua, da fonte e simbolo di vita a risorsa esauribile al pari del petrolio. Come è avvenuta questa trasformazione? E perché suscita sempre di più gli interessi delle multinazionali?
L’acqua è forse l’elemento naturale che più di tutti è sinonimo di vita. Non c’è bisogno di ricordare questo, né di dilungarci sulla sua importanza nel ciclo biologico degli esseri viventi. Voglio però iniziare a parlare di acqua rilevando un aspetto che nel dibattito corrente sulla privatizzazione delle risorse idriche è spesso tralasciato. Il diritto all’acqua, proprio per il suo legame inscindibile con la vita degli esseri umani, è stato introdotto nel novero dei diritti dell’uomo come naturale estensione del diritto alla vita. L’Ufficio dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Diritti Umani, nel settembre 2007, ha stabilito che “È ormai tempo di considerare l’accesso all’acqua potabile e ai servizi sanitari nel novero dei diritti umani, definito come il diritto uguale per tutti, senza discriminazioni, all’accesso ad una sufficiente quantità di acqua potabile per uso personale e domestico – per bere, lavarsi, lavare i vestiti, cucinare e pulire se stessi e la casa – allo scopo di migliorare la qualità della vita e la salute. Gli Stati nazionali dovrebbero dare priorità all’uso personale e domestico dell’acqua al di sopra di ogni altro uso e dovrebbero fare i passi necessari per assicurare che questa quantità sufficiente di acqua sia di buona qualità, accessibile economicamente a tutti e che ciascuno la possa raccogliere ad una distanza ragionevole dalla propria casa.” Premesso questo, dovremmo prima di tutto stupirci se oggi in diverse parti del mondo ci troviamo ad opporci alle scelte dei governi che invece di garantire l’accesso ad un diritto umano si preoccupano di privatizzare una risorsa indispensabile alla sopravvivenza. In un mondo dove dominano le logiche del liberismo sfrenato ci si è preoccupati di trarre il massimo profitto da ogni tipo di risorsa. Quindi si è passati a considerare beni come il lavoro o come l’acqua (tanto per fare solo qualche esempio) alla stregua di qualunque altro bene di consumo. Relativamente all’acqua, il suo valore crescente, perché risorsa limitata, le preoccupazioni sulla qualità, la quantità e la possibilità di approvvigionamenti e di accesso, hanno trasformato il bene in una risorsa strategica vitale. Sotto la spinta della crescita demografica, della desertificazione di alcune zone del pianeta, e per effetto dell’inquinamento, le risorse idriche pro capite negli ultimi trent’anni si sono ridotte del 40%. A causa della crescita delle attività umane dovuta ad un modello di sviluppo non sostenibile, la disponibilità di acqua potabile per persona sta diminuendo. All’inizio del terzo millennio si calcolava che oltre un miliardo di persone non avesse accesso all’acqua potabile, e che il 40% della popolazione mondiale non potesse permettersi il lusso dell’acqua dolce per una minima igiene. L’acqua è destinata a rivestire un’importanza sempre più rilevante nei rapporti tra gli Stati, con il rischio di dare origine a violenti conflitti. In alcune regioni del mondo, la scarsità di acqua potrebbe diventare quello che la crisi dei prezzi del petrolio è stata, negli anni settanta: una fonte importante di instabilità economica e politica. Per questo suscita l’interesse delle multinazionali: più l’acqua diventa una risorsa sempre più scarsa, più il suo valore di mercato aumenta, e di conseguenza anche i margini di profitto di chi ci specula.
Qual è la situazione in Italia rispetto alla gestione delle risorse idriche? L’impressione è quella di un far west legislativo: si passa dal caso di Agrigento, che con i suoi 445 euro annui, è la città con le tariffe più alte, a quello di Cerveno, in Val Camonica, i cui abitanti pagano 15 euro l’anno. Da cosa dipendono queste differenze?
In Italia la gestione del servizio idrico integrato è affidata agli ATO (Ambiti Territoriali Ottimali). Il servizio idrico integrato ha la funzione di realizzare il ciclo integrato delle acque: dalla fonte l’acqua deve essere portata ai destinatari mediante una rete di adduzione, i reflui che residuano devono passare in fognatura e attraverso la depurazione essere destinati al mare o al riuso. Secondo il rapporto annuale del Conviri, la commissione di vigilanza sull’uso delle risorse idriche, circa il 95 per cento degli Ato (Ambito territoriale ottimale) è gestito da spa, soggetti di diritto privato. La fotografia che il sistema delle gestioni idriche ci presenta è quella di un’Italia divisa in due dall’acqua. Secondo il Blue Book, del centro di ricerca Proacqua, le differenze di prezzo del servizio variano di molto da regione a regione e pertanto sarebbero attribuibili ad un pessimo federalismo delle tariffe. Ad esempio, si calcola che un litro d’acqua a Terni costa quattro volte più che a Milano. E i prezzi della città umbra non sono nemmeno i più alti d’Italia: la superano, in demerito, Latina e Agrigento. In quest’ultima si pagano le tariffe fra le più alte d’Italia con una media di oltre 400 euro l’anno a famiglia. E prezzo alto non necessariamente vuol dire servizio efficiente. Ogni anno, secondo un documento della Confartigianato, il 30,1% dell’acqua immessa in rete non arriva ai rubinetti: per fare un paragone europeo, in Germania le perdite non arrivano al 7%. Tutto questo in un quadro dove gli investimenti sono sia pubblici sia privati. Cosa succederà alle tariffe del servizio idrico con la privatizzazione della gestione? È difficile fare previsioni. Bisogna dire, però, che gli indizi attualmente a disposizione non fanno sperare nulla di buono. Nella maggior parte dei territori a gestione privata si stanno verificando dei cospicui aumenti delle tariffe. Questo per un banale meccanismo di mercato: se la gestione è privata, ai costi di gestione si devono aggiungere anche i profitti, che il cittadino è tenuto a pagare alla società che gestisce il servizio, senza avere la certezza di poter contare su una maggiore efficienza della gestione. Si chiama “remunerazione del capitale investito”. Il cittadino paga già in bolletta i profitti dei gestori del servizio. Si tratta del sette per cento.Arezzo, città in cui la società che gestisce l’erogazione dell’acqua è in mano a privati, ha una bolletta tra le più care d’Italia. Una bolletta quattro volte più costosa rispetto a quella delle città più economiche.
Il decreto Ronchi non fa che portare a compimento un processo di privatizzazione nella gestione dei servizi idrici in Italia iniziato già a metà degli anni ’90. Quali novità introduce? Quali sono le principali conseguenze della gestione in mano privata?
Il decreto Ronchi mette l’acqua sul mercato. Prevede che il servizio sia affidato tramite gara a società interamente private o misto pubblico – private (ma in quel caso il privato dovrà per forza detenere una quota non inferiore al 40 per cento). In deroga rimane la possibilità di affidare il servizio a una società a totale capitale pubblico. Ma solo in deroga, la forma di gestione ordinaria è la gara e i soggetti prescelti sono quelli di diritto privato. I fautori del decreto sostengono che non è privatizzata la proprietà dell’acqua in sé, quanto la gestione del servizio. E’ vero, ma è un’argomentazione pretestuosa fino al ridicolo tanto da dover pensare che ci stiano prendendo tutti per stupidi ed in più non si capisce dove stia il vantaggio. Se io sono proprietario di un orto, ma lo coltiva il mio vicino di casa, che si tiene tutto il raccolto per sé, o al massimo è disposto a vendermi gli ortaggi ad un prezzo al di sopra delle mie possibilità, indovinate: chi dei due è condannato a morire di fame? L’Oggetto della privatizzazione è la gestione delle risorse idriche, degli impianti per la distribuzione dell’acqua ai cittadini, gli impianti di depurazione dei reflui inquinanti, la manutenzione delle strutture, gli acquedotti e le reti fognarie. Il governo, con il Decreto Ronchi, affida la gestione dell’acqua e degli impianti idrici ai privati, trasferendone la competenza, a partire dal 2011. Con questo decreto, si assisterà alla progressiva privatizzazione dei servizi idrici. Le principali conseguenze della privatizzazione, come ho già detto, riguarderanno le tariffe del servizio. Fino ad oggi, laddove si è affidata la gestione ai privati, si sono registrati aumenti tariffari pari al 61 per cento. Le tariffe nel decennio 1997-2006 sono aumentate del 71,4 per cento a fronte di un inflazione nello stesso periodo del 25 per cento. E contemporaneamente gli investimenti sulla rete idrica sono diminuiti di due terzi. Nel decennio antecedente all’ingresso dei privati, 1990-2000, gli investimenti sono stati pari a due miliardi di euro anno, nel decennio successivo, 2000-2010, sono scesi invece a 700 milioni di euro annui.
Eppure i sostenitori del decreto considerano il coinvolgimento del privato un adeguamento alla legislazione europea in materia di concorrenza, nonché una garanzia di modernizzazione, efficienza e trasparenza rispetto alle precedenti gestioni… Come stanno realmente le cose? Certo è che la rete idrica nazionale è un colabrodo. L’introduzione di un controllore super partes potrebbe rafforzare il sistema delle regole e tutelare i cittadini?
In passato era stato detto che lo Stato non riusciva più a far fronte agli investimenti necessari all’ammodernamento delle reti, a rendere efficiente il servizio e a migliore la qualità dell’acqua, problemi che l’ingresso dei privati avrebbe risolto. Ma i dati del Conviri dicono il contrario: c’è stata una flessione, netta. I privati non hanno alcun interesse a fare investimento cospicui per l’ammodernamento delle reti, del resto non pagano nulla per l’acqua che si disperde. Con i servizi pubblici locali il business è garantito, non c’è rischio d’impresa. Le società che gestiscono i servizi idrici hanno la più alta rendita in borsa, superiore addirittura a quella delle compagnie petrolifere che si aggira attorno al 29 per cento annuo. Quella dei gestori dell’acqua è invece attorno al 35 per cento. Nel settore dell’acqua la domanda è quantomeno fissa e il profitto garantito dalla legge. Per quanto riguarda i consumi si deve sottolineare che la media dei piani di ambito in Italia, prevede per i prossimi anni un aumento dei consumi pari a circa il 18 per cento. Un crescita in controtendenza rispetto a quelle che dovrebbero essere politiche di risparmio idrico o di uso sostenibile della risorsa, vista la conclamata crisi idrica generale. È evidente che un gestore privato non ha avrà interesse a fare politiche di questo tipo. Il suo interesse sarà di vendere sempre più prodotto, quindi sempre più acqua. Bisogna aggiungere poi che il fatto che un sistema privato di gestione dell’acqua rappresenti un adeguamento alla legislazione europea in materia di concorrenza non è un aspetto che può interessare sostenitori dell’acqua come bene comune. Del resto, per preoccuparci dell’adeguamento alle norme che regolano la concorrenza bisognerebbe partire dal presupposto che l’acqua sia un bene come tutti gli altri e pertanto soggetto alle leggi della domanda e dell’offerta. Se invece si parte dal presupposto che l’acqua è un bene comune, già presente in natura senza bisogno dell’intervento umano, indispensabile per la sopravvivenza della vita organica, ed il diritto all’accesso alle risorse idriche un diritto umano, non si può prescindere dal considerare una violazione del diritto alla vita qualunque tentativo di ricondurre a logiche di mercato non solo la proprietà, ma anche la gestione delle risorse idriche, che per natura sono escludenti. Se l’acqua è un diritto, io cittadino voglio avere la possibilità di poter avere un peso nel controllo della gestione delle risorse idriche. E l’unico strumento che mi consente questo è la possibilità di poter scegliere gli amministratori che gestiranno il servizio, attraverso libere elezioni. Ragion per chi ho necessità che l’acqua sia pubblica. Difficilmente posso influire sul controllo di un bene comune se la sua gestione è affidata ad un privato, a meno che non possa permettermi di comprarmi un cospicuo quantitativo di azioni di quella società. Possibilità che ovviamente è concessa a pochi. Detto questo, è fuori di ogni dubbio che lo stato attuale della rete idrica sia un colabrodo, e che la cattiva gestione pubblica, in alcuni casi influenzata dal peso che hanno le mafie in alcune zone del paese (e non mi riferisco solo al sud), siano un problema urgente da affrontare. Ma la soluzione non può e non deve essere il demandare al privato, non c’è nessun dato oggettivo che mi garantisca l’efficienza di una gestione privata né che un organismo diverso da quello pubblico sia lontano dalle logiche degli interessi particolari anche di tipo malavitoso. Chi sostiene queste tesi si basa soltanto sulla fede cieca che oggi nell’occidente si ha per le leggi del mercato, che il privato sia sinonimo di efficienza e di modernizzazione è ormai un ritornello che è entrato nella testa di molti, ma nessuno ci può garantire che il mercato sia più efficiente del pubblico quando si tratta di gestire beni comuni. Bisogna rivedere il paradigma di civiltà improntato sul liberismo, perché è la causa principale che ci sta portando alla rovina ed al saccheggio delle risorse naturali. Sono, infatti, sempre più noti i legami che intercorrono tra certa politica e le società che hanno interesse ad appropriarsi dell’acqua. Bisogna poi aggiungere che, in ogni caso, qualunque meccanismo di controllo sulla gestione delle risorse idriche che può essere adottato, non deve essere in nessun modo influenzato da logiche di mercato o dal profitto così come il diritto all’accesso all’acqua deve stare fuori delle logiche liberiste.
Quali sono le proposte da parte dei comitati e delle associazioni che si battono a difesa dell’acqua-bene comune e quali risultati sono stati raggiunti fino ad ora?
La campagna referendaria “L’acqua non si vende” è oggi il principale strumento con il quale si vuole impedire che il diritto all’acqua sia compromesso da chi ha interesse a speculare sulle risorse idriche e quindi sulla vita. Dopo nove giorni di raccolta firme, iniziata il 24 aprile scorso, il Comitato Promotore per i tre Referendum per l’acqua pubblica ha comunicato di aver superato le 250mila raccolte per ciascuno dei tre quesiti proposti. La velocità di raccolta firme è straordinaria e da tutti i territori, anche dai più periferici in poco tempo sono iniziati ad arrivare dati fantastici. Il fine settimana del primo maggio ha replicato il successo del precedente. File nei banchetti in tutta Italia, alle celebrazioni della Festa dei Lavoratori, nelle piazze e per la strade. Impossibile dire, visti i tempi editoriali, a quanto ammonteranno le firme raccolte quando uscirà quest’articolo. Mi sia permessa una valutazione politica piuttosto forte: é fondamentale impedire che tutti i tentativi di rendere privata l’acqua ci rubino, e sottolineo rubino, il diritto all’acqua come bene comune, dando la possibilità di saccheggiare ciò che non appartiene al capitale, poiché patrimonio dell’umanità, con pratiche da banditismo. Come chiamereste voi qualcuno che vi entra in casa e s’impossessa dei vostri beni? Io li chiamo banditi, perché saccheggiano un bene che non è loro, poiché comune a tutti. E’ poi straordinario costatare che per la prima volta dopo tanto tempo, attorno al tema dell’acqua si stanno riunendo molti soggetti, di diversa provenienza, per dare vita ad un movimento che metta nuovamente al centro dell’azione politica i diritti dell’uomo e della terra, con tutte le sue risorse che devono costituire il nostro patrimonio di beni comuni. La cosa più confortante è poter vedere risorta l’altra Italia, quella che non si è lasciata asservire alle logiche del pensiero unico e del berlusconismo che ormai è diventata la sola ideologia ammessa e tollerata dai più. Sta rinascendo una rete di soggetti con i quali sarà interessante coltivare un progetto per realizzare l’impresa, possibile e necessaria, di un altro mondo, basato sul rispetto dei diritti dell’uomo e della terra. Della nostra terra che gli indigeni del sud america chiamano la Pachamama, (la madre terra) e delle risorse che ci regala, che invece in Italia stiamo vendendo a chi è disposto a specularci. Di questo A Sud si sta occupando da tempo. E’ da poco terminata in Bolivia la Conferenza Mondiale dei Popoli sul Cambiamento Climatico e i Diritti della Madre Terra dove ha partecipato una nostra delegazione. A Cochabamba, la città dove si è consumata e vinta la prima guerra di liberazione dell’acqua, (in quel paese si tentò di privatizzare pure l’acqua piovana) è nata l’Internazionale della Madre Terra. Quest’evento segna l’inizio di un nuovo campo di azione. Un campo che si è andato costituendo nel corso di questi ultimi venti anni a partire dalle lotte dei movimenti sociali, contadini, indigeni di tutto il mondo. Un’ecologia della liberazione che promuove una democrazia deliberativa, attraverso pratiche e forme di partecipazione più ampie. Un soggetto si pone come obiettivo quello di salvare il pianeta e per farlo propone la costruzione di un nuovo paradigma di civilizzazione, fondato sull’armonia con la vita e la ricostruzione dei nessi biologici con tutti i viventi. Se il capitalismo mette al centro il profitto ed il socialismo l’uomo, questo nuovo soggetto planetario pone al centro la vita. Non vede l’uomo separato da essa ma se ne riconosce parte e come tale assume il diritto e la responsabilità di difenderla nel suo complesso, accettando e valorizzando la profonda ed indissolubile relazione di interdipendenza e connessione tra tutti i viventi. Un campo in cui s’identificano non solo i movimenti indigeni, con il “buen vivir”, ma che include la teologia della liberazione, centinaia di milioni di contadini di Via Campesina, i movimenti africani come quelli di liberazione del delta del Niger, quelli indiani contro le dighe, il transgenico e la biopirateria, le reti internazionali di associazioni per il riconoscimento del debito ecologico, le comunità sparse per il pianeta, Italia inclusa, impegnate contro le privatizzazioni dei beni comuni, centri di ricerca e di studio, intellettuali e scienziati. Da Cochabamba viene lanciato un messaggio chiaro: il modello capitalista è il principale responsabile dei cambiamenti climatici e delle crisi di questo pianeta, tra le quali quella alimentare e migratoria che già adesso distruggono i diritti di miliardi di esseri umani e della natura. Questa nuova Internazionale dei movimenti, che per ragioni evidenti ed ormai indiscutibili si dichiara anticapitalista, si pone la necessità di costruire una Democrazia della Terra, lasciando da parte qualsiasi scorciatoia legata al “new green deal” di Obama, che tanto piace a molti europei. Ma se non si riducono i consumi e non si cambia la maniera di produrre e distribuire da questa situazione non se ne esce e le crisi trascineranno sul fondo tutti. Abbiamo invece bisogno di proposte concrete ed immediate. Tra queste le più efficaci emerse dalla conferenza sono il riconoscimento del debito ecologico del nord del mondo nei confronti dei popoli del sud e l’istituzione del Tribunale Internazionale di Giustizia Climatica. Misure concrete in grado di mettere al centro il concetto di giustizia climatica e stabilire le responsabilità condivise ma diverse che tutti dobbiamo assumere. Proposte che i presidenti di Bolivia, Cuba, Ecuador, Nicaragua e Venezuela, in questa alleanza necessaria con i movimenti, si sono impegnati a portare al segretario generale delle Nazioni Unite ed a discutere con altri governi. Discorso che però non piace e confligge con le proposte di chi detiene la “governance”. In poche parole, la battaglia sull’acqua è solo il primo tassello di un progetto più grande, è il primo obiettivo da raggiungere per iniziare un cambiamento di paradigma economico e di civiltà, che ci condurrà su un sentiero dove è importante camminare in molti, perché dalla realizzazione di questi obiettivi dipende il futuro della terra e dell’umanità.